Giovanni Damiani
Intervista a cura di Giovanni Damiani pubblicata in “Marcello Guido- Espressioni Contemporanee”, Mancosu Editore, Roma 2007
Vorrei cominciare questa intervista chiedendole delle sue origini e della sua terra di Calabria. Le pongo questa domanda perché penso che anche se lei pratica un’architettura legata ad un dibattito più internazionale esista un rapporto stretto e fecondo con il fatto che lei opera in Calabria e in generale nel Sud. È quanto sto cercando di evidenziare anche nello scritto di apertura e che secondo me è bene che sia discusso.
Sono nato ad Acri. Acri è un centro dell’entroterra calabrese nell’area collinare del massiccio della Sila. Di formazione sostanzialmente contadina assomma tutte le contraddizioni della condizione meridionale. Estremamente arretrato fino agli anni ’50, brucia, come la quasi totalità dei centri meridionali, le opportunità offerte dal boom degli anni ’60-’70. Se dal punto di vista economico sono anni in cui il reddito pro-capite dei calabresi raddoppia, per ciò che riguarda il nostro specifico hanno rappresentato la iattura più pesante che il territorio potesse sopportare. Le città si sono gonfiate di edilizia priva della pur minima qualità e di quella ubriacatura se ne pagano tuttora le conseguenze. Sono anni sciagurati che hanno ipotecato non solo il futuro di quella generazione ma anche di quelle che verranno ed il prezzo da pagare sarà altissimo. Sono cresciuto in quegli anni. Sono cresciuto intorno e nell’abusivismo di quegli anni, nello squallore della edilizia perennemente non finita ed attenta al solo soddisfacimento primordiale e materiale del riparo fisico. Si discuteva però tantissimo, molto di più di quanto avviene oggi. Vi era una vivacità culturale che sarebbe esplosa nei tardi anni ’60 con la messa in evidenza di contraddizioni che avrebbero investito l’intera collettività italiana e planetaria . Mi sono formato all’interno di tutte queste problematiche.
Mi piacerebbe anche che mi parlasse del suo rapporto con la facoltà di architettura a Roma. Lei ha dichiarato più volte la sua affinità a Bruno Zevi, cosa di cui parleremo naturalmente, ma vorrei che raccontasse del suo arrivo a Roma, di come erala Facoltà, la sua vita all’interno dell’Ateneo e della città.
Mi sono iscritto alla facoltà di architettura di Roma nel 1971, ed ancora si sentivano le grida e la puzza dei lacrimogeni di tre anni prima. Mi trovai benissimo. Dopotutto anche Roma era piena di problemi e contraddizioni. Ho vissuto in quartieri che oggi potremmo definire a rischio. Il San Lorenzo operaio degli anni ’70 non era il San Lorenzo oggi di moda e lo stesso centro storico non era ancora stato parlamentarizzato, nel senso che era ancora una città “a misura d’uomo” non fagocitata dal turismo e non omologata. Ho passato intere giornate in San Pietro e non si aveva il senso di fastidio che si avverte oggi entrando in un qualsiasi posto dove orde di cavallette turistiche devono consumare tutto e subito in ossequio al vivere contemporaneo. Potremmo dire che il tempo scorreva più lento… Amavo la musica classica ma è a Roma che ho scoperto la musica contemporanea. Nei cineforum di Trastevere conobbi Sylvano Bussotti e più tardi, tramite Bruno Zevi, conobbi Franco Evangelisti che mi diede alcune lezioni sulla musica elettronica. Trovai una facoltà dove ancora le baronie degli anni ’50 avevano un ruolo primario ed amavano contrastarsi a vicenda in modo tale che nessuno potesse prevalere sugli altri, questa è una prerogativa delle accademie ottocentesche e Roma non si è mai del tutto scrollata di dosso la struttura delle scuole accademiche. Erano anni di grandi fermenti e di grande confusione. La facoltà aveva sostanzialmente due riferimenti culturali: Bruno Zevi e Ludovico Quaroni, il resto era una scomoda eredità del passato. Intorno a queste due figure si formavano consensi e dissensi. Da un lato Bruno Zevi che non amava formare gruppo, scuola, irascibile e convinto assertore di una articolazione libera e libertaria, insegnava ma non amava avere e formare cordoni ombelicali. Dall’altro Quaroni, protettivo, paternalistico e suadente, al contrario, formava gruppo e lasciava eredità di potere. Il mio riferimento fu immediatamente Zevi, lo incontrai al secondo anno e non ho perso più una sua lezione fino alla laurea. Gli riconosco un grande ruolo: quello di avere insegnato le nozioni essenziali della costruzione dello spazio. Se è pur vero che non si può insegnare a concepire l’architettura, viceversa si può insegnare a capire la costruzione fisica dello spazio ed ancora di più si possono insegnare i processi di evoluzione dello spazio nella storia. Quindi operare all’interno della storia medesima, renderla corpo vivo e strumento per l’architetto. Si tratta di una nuova ed inedita interpretazione: la storia non è più qualcosa di distante da analizzare in modo asettico ma diventa un mezzo attraverso il quale si possono capire i termini di quella modernità trasversale che investe processi millenari. Il rapporto di Zevi con la facoltà fu sempre conflittuale, negli ultimi anni si avvertiva una sorta di insofferenza verso un sistema che non formava ma sfornava,ed il fatto che volle il suo corso tra gli insegnamenti non obbligatori stava a significare che chi frequentava lo doveva fare per scelta e non per obbligo. Mai una lezione nel chiuso conservatorismo disciplinare, erano piuttosto discussioni aperte: frequentissime le visite di architetti che arrivavano da tutte le parti per spiegare le loro architetture oppure le visite in cantiere. Tra le tante ricordo bene quelle fatte, nel corso di qualche mese, con Luigi Cosenza nel cantiere per l’ampliamento della Galleria Nazionale di Arte Moderna, oppure le visite nello studio di Corrado Cagli a Trastevere. Veramente un bel ricordo.
Credo che sia interessante affrontare da subito il rapporto con Zevi e lo farei partendo da una domanda molto banale. Com’è stato Zevi come maestro?
“Maestro” significa formare una scuola, e formare una scuola in un certo qual modo sottintende una strutturazione accademica. Bruno Zevi è stato molto di più.
Le ho chiesto questo perché Zevi, oltre al suo indubbio grande contributo alla diffusione dell’architettura moderna in Italia e a un corpus di opere di valore ha lasciato un grande ricordo nei suoi allievi. Non voglio ora entrare nelle eterne considerazioni se Zevi abbia avuto allievi o meno, ma chi ha studiato con Zevi è sempre molto fiero di averlo fatto, si sente parte di un percorso, di una identità. Zevi in questo deve essere stato bravissimo davvero. È come se tutte le persone che si sentono contro un certo establishment accademico, sociale o anche solo un immaginario figurativo – in una facoltà di architettura queste figure abbondano, come sappiamo– si potessero riconoscere dall’appartenenza al sistema di contropensiero zeviano. Questo mi ha sempre interessato moltissimo per una duplice ragione data dal fatto che io ho studiato a Venezia dove abbondava la dimensione mitologica di alcune figure, sia perché, per questioni generazionali, ho vissuto la caduta fuori dal mito.
Penso che la lezione di Zevi non possa essere interpretata come ricordo, esiste un corpo di opere che esprimono il suo pensiero ed il suo pensiero è a nostra disposizione, in tal senso la sua lezione non si è mai interrotta. E’ questo in verità il suo grande lascito. Si può parlare con Zevi ancora oggi e si potrà studiare insieme a lui tra un secolo. Questa è una prerogativa concessa solo ai grandi. E’ stato senza dubbio uno dei pensatori-innovatori del secolo scorso perché, come dicevo prima, offriva una lettura inedita della storia dell’architettura che fino al primo dopoguerra restava ancora legata ad una impostazione compartimentata e svincolata dalla comparazione,dalla società, dalla critica intesa come indicazione di una possibilità operativa per l’architetto. La sua lezione è stata quella di far capire i termini di una modernità che non è legata propriamente alle contingenze temporali a noi più vicine ma attraversa cinque millenni di storia dell’architettura e capire queste trasversalità significa entrare nella modernità. Cosa possono avere in comune il tempio di Bacco a Balbeek, Michelangiolo, il Cavalier Boromino e l’atrio del Guggenheim di Bilbao è qualcosa che si riesce ad intuire solo se si assimila il suo modo di guardare la costruzione dello spazio nella storia. Non ammetteva deroghe su questa visione della storia. Penso sia stato questo, ad esempio, il suo grande fastidio per come Paolo Portoghesi guardava a Francesco Castelli , Cavalier Boromino. Il legame tra Boromino e la modernità non può essere definito attraverso similitudini formali affidate alla bidimensionalità di piante e prospetti ma è cosa molto più complessa. Prendere archetipi formali dalla storia è stato il grande limite della esperienza postmodernista e penso sia stato questo uno dei motivi essenziali per il quale quelle esperienze furono vissute dai più come moda e furono spazzate via nel giro di qualche decennio. Prerogativa poi delle accademizzazioni è il mitizzare le figure, quando si vuole obliterare una lezione si mitizza il personaggio, la sua esperienza viene vista come qualcosa di irraggiungibile ed intoccabile, è accaduto in passato per alcuni grandi architetti ed accade oggi in Italia quando si concede la deroga unicamente al “maestro” e quindi ciò che il “maestro” realizza non può essere traslato nella pratica quotidiana. Bruno Zevi era contro i miti ed il suo pensiero espresso in tanti suoi scritti non potrà mai essere mitizzato. Altra cosa è la nostalgia per non avere la possibilità di avere più contatti con la persona fisica , ma riguarda un fatto puramente affettivo per coloro che hanno avuto la possibilità di conoscerlo.
Quindi esistono gli zeviani?
Esistono oggi, ma zeviani nasceranno anche tra un secolo se si intende per “zeviano” un modo di guardare ed indagare la storia.
Vorrei insistere sulla questione Zevi focalizzando un altro aspetto che mi pare decisivo dell’opera critica complessiva di Zevi stesso, ovvero il forte carattere operativo che ha sempre dato al suo approccio critico, che per chi come me si è formato a Venezia è motivo di interessanti speculazioni storiografiche. Da un lato sono portato a comprendere benissimo cosa volesse portare avanti Tafuri quando affermò con forza che c’è solo la storia e non la critica, ma dall’altro vedo anche come questo abbia generato uno specialismo che ha penalizzato molto la dimensione pratica dell’architettura, abbandonata a se stessa e alle regole del puro mercato. Lei pratica un’architettura, che interessi o meno il suo linguaggio, comunque difficile e che cerca un confronto con una dimensione teorica e per questo mi interessava una sua opinione sull’annoso tema teorico italiano, se cioè storia e progetto possano stare assieme.
Il problema resta sempre nel rapporto tra la storia, lo storico e l’architetto. Certamente lo specialismo di cui lei parla può anche essere per alcuni versi produttivo, perché da ulteriori informazioni. Ma lo storico non può mettersi esclusivamente in una condizione di distanza artificiale ed analizzare gli eventi in modo asettico, deve necessariamente rendere comunicabile un linguaggio. Brunelleschi, Michelangiolo, Ghery e tanti altri hanno prodotto linguaggi comuni, anticlassici, ma non hanno indicato un codice affinché questi linguaggi potessero essere trasmessi. Se Michelangiolo, ad esempio, avesse avuto il modo di codificare le esplosioni spaziali espresse nelle fortificazioni, oppure un critico avesse avuto modo di interpretare, spiegare ed incentivare quelle esperienze, si sarebbe avuta, nella storia dell’architettura, una accelerazione di circa 300 anni. Ma cosi non è stato, e quelle esperienze sono state obliterate proprio dai discepoli che mitizzandone la figura le rendevano non comunicabili. E’ anche certo il fatto che le modernità azzerano costantemente i propri linguaggi così da avere una ulteriore difficoltà interpretativa e comunicativa, compito dello storico, a mio avviso, è quello di dare una indicazione espressa non in regole convenzionali ma in concetti linguistici, dare cioè all’architetto una possibilità ed una strada da percorrere. In tal senso la storia non solo farà parte dei processi linguistici ma ne diventerà parte integrante e dovrà necessariamente essere interpretata come narrazione continua. Ma i codici , di contro, possono intendere una strutturazione del pensiero fissa ed immobile ed il rischio è reale. E’ possibile realizzare dei codici “non statici” ma dinamici e mutevoli?
Per rimanere sulla figura di Zevi un’altra cosa che mi ha sempre interessato è che molti allievi o persone che comunque si dicono influenzate da Zevi rimangono anche vicini ad alcuni architetti o modelli che Zevi ha portato avanti. Anche lei in altre interviste ha citato Borromini o Mendelshon tra gli architetti che l’hanno più interessata. Secondo lei come mai questo fenomeno è una costante? Mi piacerebbe anche che sia l’occasione per raccontare come avvenivano le dinamiche zeviane che poi hanno generato questo fenomeno?
Avere riferimenti non è una costante ma è un definire il proprio pensiero con la storia e nella storia. Cercherò di essere concreto: un bimbo apprende il linguaggio attraverso la conoscenza, ed è proprio questa che veicola il neonato verso la acquisizioni materiali. Le conoscenze immateriali sono più complesse, la gioia, il dolore non fisico, il senso estetico, sono qualcosa che si acquisiscono quando le conoscenze materiali sono ad uno stadio maturo. Dovremmo chiederci: è possibile creare lo spazio senza acquisire le esperienze passate? Esiste un legame tra eventi temporali distanti nel tempo ma che esprimono le stesse tensioni culturali? Se il legame esiste, può essere traslato nella fare contemporaneo? Se la storia è un processo continuo e concatenato di eventi le esperienze del passato possono entrare nelle dinamiche contemporanee. Naturalmente ciò dovrà riguardare i linguaggi e non i formalismi. In questi termini non vi trovo nulla di strano considerare il Cavalier Boromino nostro contemporaneo. Non dobbiamo dimenticare che le esperienze postmoderniste nascono negli anni ’70 con Luis Kahn che riproponeva una architettura che si sviluppava con forme archetipe prese in prestito dal passato. Una intellettualizzazione che portava l’architettura ad avere un solo riferimento: il disegno ed nel disegno la dimensione bidimensionale. Ne venivano fuori disegni anche piacevoli da osservare dal punto di vista unicamente speculativo del segno, ma lo spazio che si generava attraverso quei segni era una sorta di non-spazio.
Visto che siamo in argomento, quali sono gli architetti che più l’hanno influenzata?
Molti. Ne cito alcuni: Gli architetti degli spazi ipogeici della prima età cristiana, Michelangiolo nell’abside del Tempio Vaticano , Boromino nel San Carlino, Lanfranco nel Duomo di Modena, Hans Scharoun nella philharmonie. Gaudi nella cripta Guell…
Come mai, proprio questi? Esiste un filo rosso che li lega apertamente?
Hanno lavorato all’interno della modernità indagando la complessità.
Le ho fatto questa domanda perché sono interessato a capire come gli architetti guardano le opere degli altri architetti. In altri termini come si forma il proprio gusto e i propri interessi. Credo possa avvenire in molti modi, per fascinazione formale, per affezione ideologica, per vicinanza di carattere con il personaggio. Lei come la pensa?
Gli interessi si formano con la ricerca, con gli interrogativi, con il chiedersi costantemente i perché, deve esserci poi una comunanza sostanziale di pensieri. In tal senso mi sento più vicino a Boromino che non a L. Battista Alberti, più vicino a Scharoun che non a Mies, più vicino ad Owen Moss che non a Chipperfield. Il carattere è viceversa un fatto privato e penso conti poco. Boromino era ipocondriaco, Scharoun scostante e permaloso e Lanfranco suadente fino ad essere osannato: Mirabilis Artifex, Wright elegante e raffinato al contrario di Gaudì che faceva una vita di privazioni e quando mori fu scambiato per un mendicante.
Senta visto che stiamo parlando di architettura mi piacerebbe sapere una sua opinione sugli strumenti dell’architetto. Intanto le chiedo cosa è per lei l’architettura?
L’architettura deve sostanzialmente essere al sevizio dell’uomo ma deve esprimere le ansie, le aspettative, le prerogative, le culture delle società che la pensano e costruiscono. In questa ottica lo spazio non dovrebbe essere statico e finito ma in continua mutazione. Ciò porta al concetto del temporaneo. Penso che se volessimo essere realmente moderni e contemporanei dovremmo scrollarci di dosso il concetto di finito e duraturo nel senso di perpetuo. Elemento genetico della modernità, contro le accademie, è la mutazione continua e quindi la temporaneità. Viceversa è la nostra formazione accademica che ci porta a musealizzare tutto quanto ci circonda così da renderlo intoccabile.
L’architettura che rapporto ha con la forma e secondo lei esiste un architettura a prescindere dalla forma? Lo chiedo perché secondo me su questo punto ruota tutto il perno centrale della decostruzione come possibile apparato linguistico.
L’architettura è sostanzialmente costruzione dello spazio. Ed è lo spazio a diventare forma. Ma se la forma si piega ad una ideologia astratta, cioè non accetta di svilupparsi nel processo dinamico del proprio svolgersi assume una valenza preponderante e diventa ponte per riallacciarsi ad un passato ormai finito senza entrare in contatto con la contemporaneità. Vi è un magnifico passo dell’Eliante in cui Brandi afferma che la spiritualità umana avverte la necessità di superare il bisogno pratico nel suo stesso bisogno. L’architettura, lo spazio si svincola a questo punto dal suo essere unicamente riparo, non per essere realtà esistenziale esterna allo spirito ma sua espressione. Forse questo è il concetto di forma al quale io posso riferirmi. Non bisogna dimenticare poi che in alcuni casi è la non-forma a veicolare i processi creativi, mi riferisco al non-finito michelangiolesco in cui il processo creativo non è illustrativo ma è sostanzialmente espressivo, in tal senso la creazione si sviluppa e si concretizza anche nella non-forma lasciando semplici interrogazioni all’osservatore. Una forma svincolata dalla scatola, una forma non più contenuta nella scatola, con pareti prive di spessore, non è forse questa la prossima frontiera?
Piante Sezioni e Prospetti quanto contano per lei? Questo tema mi interessa molto in questo periodo, io mi sono formato tra gli ultimi a cui veniva predicato un primato della regola e negli stessi anni in cui esplodeva completamente il fenomeno, anche in Italia, di una certa architettura che voleva liberare le forme. Nei miei anni di università questo fenomeno era un punto di confronto serrato, ricordo. Oggi però, soprattutto quando ho avuto modo di lavorare in facoltà straniere vedo che si è perso completamente quell’apparto di regole che la generazione precedente voleva trasgredire. In altri termini da un gesto di rottura dalle immanenze dell’architettura e delle tipologie è emerso una sorta di liberi tutti in cui quelli che erano gesti di rottura mi sembrano essere banali formalismi. Ricordo uno dei primi workshop all’estero nei primi anni di facoltà in cui mi venne raccontato di come, negli anni Settanta alcuni architetti rompevano le squadrette, contro gli angoli retti e di come mi parve una cosa coerente e interessante come gesto. Oggi però, spero non per conservatorismo anticipato, vedo che nessuno sa più neppure usare le squadrette e mi pare che non ci sia nessuna rottura concettuale in questo, ma solo una pochezza di conoscenza.
Piante prospetti e sezioni contano pochissimo, servono solo ai fini realizzativi, personalmente affido molto peso al disegno, inteso come stratificazione di segni e metafora dei nostri sogni, una mediazione progressiva tra il pensiero e la realtà. Affido al disegno una sorta di collegamento tra il nostro immaginario e la realtà. Scarpa chiudeva questi processi nel verum ipsum factum, e la frase presa in prestito da Vico sintetizza abbastanza bene questi concetti. Certo che nella creazione spaziale il segno resta il primo stadio, deve passare poi attraverso un processo di decantazione che porterà alla definizione definitiva dell’architettura. In questi processi la squadretta non ha più valore, tanto è che Frank Ghery per realizzare le sue opere usa il modello e ricava attraverso una scansione volumetrica dello stesso modello le piante di cantiere. Personalmente uso il modello materiale per il controllo spaziale, ed il modello virtuale per le piante di cantiere.
Lei come autodefinirebbe la sua ricerca?
Quasi sufficiente. Non sono molto largo in voti.
La scelta di un linguaggio come quello della decostruzione quale senso ha rispetto al contesto in cui lei opera e in Italia? Lo dico perché immagino che molti, soprattutto quegli architetti che più sono cresciuti nel mito del contestualismo saranno storditi dalle sue forme. La cosa curiosa è che molta di quella ricerca sul contesto è virata poi in stilemi postmodernisti che predicano quindi una sorta di libertà di riuso di tutte le forme e che quindi dovrebbero invece essere curiosi di queste ricerche sulla decomposizione delle forme e degli spazi.
In Italia la decostruzione come linguaggio esiste già da svariati secoli. Gli spazi ipogeici espressi negli infiniti percorsi catacombali non esprimono forse una decostruzione di linguaggio? Non decostruiscono forse gli architetti che costruiscono la piazza del Campo a Siena? Riguardo al contestualismo vi è da dire che tutti i capolavori dell’architettura italiana sono decontestualizzati. Il S.Ivo alla Sapienza è forse contestualizzato? Ma ancora prima il Foro di Traiano con i mercati abbarbicati sul costone, oppure la colonna traiana erano contestualizzati rispetto a cosa? Lo stesso progetto Bramantesco per il Tempio Vaticano è stato forse pensato in chiave contestualizzata? Il parallelepipedo di Terragni a Como, magistralmente traforato e perforato, con cosa si contestaulizza? Oppure lo è forse la villa Malaparte a Capri? Tutti i progetti citati in un certo qual modo hanno suscitato scandalo. Non era forse interpretata come barbara e priva delle più elementari regole del purismo ellenico la colonna traiana? Non dovette ipotecare Boromino la propria abitazione per le polemiche suscitate dalle architetture di S.Ivo che ai più parevano dovessero crollare quanto prima? Per quanto riguarda la mia esperienza, molte polemiche per il mio intervento di sistemazione dell’area archeologica di Piazza Toscana a Cosenza: L’ambizione del progetto di Cosenza è quella di voler decostruire i linguaggi codificati, colloquiare con la storia in termini paritetici, cosi che l’intervento realizzato entra all’interno di un’area archeologica con un tratto linguistico dichiaratamente moderno, esclude qualsiasi intervento mimetico e si pone come evento temporalizzato del nostro specifico ambito storico. I materiali usati sono quelli che più degli altri rappresentano l’appartenenza alla nostra epoca,acciaio cristallo e calcestruzzo e la loro leggibilità è immediata rispetto al reperto storico. Come prima accennavo è stato escluso qualsiasi intervento mimetico perché la mimesi è in stretta correlazione con il falso ed al riguardo è lapidario il giudizio di Cesare Brandi quando afferma che il vecchio adagio nostalgico del “dove era come era” non è altro che una offesa alla storia ed un oltraggio all’estetica perché pone il tempo in una condizione di reversibilità e pone l’opera nella sfera della riproducibilità. Si è chiesto al manufatto storico di scendere dal piedistallo e di subire la gravitazione del nostro specifico tempo, si è ristabilita quella unità potenziale dell’opera senza commettere un falso storico ed un falso artistico. Le vorrei far capire in altri termini che l’esperienza di Cosenza è desunta dalla storia, deriva dalla storia stessa perché la storia è una delle variabili linguistiche che appartengono al progetto. L’alibi del contestualismo sottintende altre necessità che sono poi le necessità pensate ed imposte da un approccio accademico ed accademizzante.
La sua risposta mi interessa molto perché indubbiamente vi è una forte componente stilistica e formalista in molti architetti definiti decostruttivisti. E questo ci permette di parlare della mostra del MoMa organizzata da Philip Johnson e da Mark Wigley. Lei l’ha vista? Che giudizio ha di quella mostra?
Una mostra, quella del MoMa, importante nella storia dell’architettura contemporanea perché pone nuovi riferimenti per il dibattito internazionale e apre nuove prospettive per l’architettura che in quegli anni risultava paralizzata intorno ai temi del postmodernismo. Non ho avuto modo di visitarla ma è stata pluripubblicata e abbiamo avuto tutti modo di studiarla. Non tutti i partecipanti lavoravano sugli stessi temi, e seguivano percorsi culturali differenti. Merito del camaleontico Philip Johnson fu quello di capire che il postmodernismo, di cui era uno dei principali portavoce, era in caduta definitiva e quindi bisognava creare nuove opportunità. Per la mia personale esperienza ha rappresentato un punto di transito, una conferma ed uno incentivo ad indagare una rottura linguistica che di li a poco si sarebbe imposta a scala planetaria. La cosa che più incuriosisce è che praticamente tutti gli architetti invitati hanno preso le distanze in qualche modo dalla mostra stessa e dalla loro partecipazione. Credo per non venir etichettati come protagonisti di un ennesimo stile secondo le formule così abilmente formulate da Johnson e dimostrando di avere tutti in questo una grande maturità critica. Penso che gli architetti che erano stati invitati in quella mostra non lavoravano su temi codificabili in uno stile e portavano avanti istanze difficilmente inquadrabili in un “manifesto”, che non è stato mai fatto perché non poteva essere fatto. Lo stesso termine “decostruttivismo” è stato preso in prestito dagli scritti di Jacques Derrida ed il filosofo dava allo stesso altri significati. Fu in seguito che tramite gli approfondimenti intellettualizzanti di Eisenman e Tschumi il filosofo francese diventa uno stimolo determinante per la maggior parte degli architetti coinvolti in quelle esperienze che restano, in ogni caso, esperienze aperte. Da qui il non riconoscersi in caselle preordinate che viceversa potevano anche stare bene all’organizzatore Johnson .
Come si sa dalla mostra, proprio per le politiche New York-centriche, sono stati esclusi molti architetti californiani e della costa Ovest (il solo Gehry era presente in quanto impossibile da rimuovere). Che rapporto ha lei con l’architettura decostruttivista californiana. Glielo chiedo perché leggendo i suoi progetti vedo delle assonanze più intense con le ricerche della West Coast che con un certo intellettualismo linguistico molto presente alla mostra che, in fondo, altro non è che la declinazione stilistica estrema del grande dibattito sull’autonomia e sul linguaggio che si era sviluppato a New York tra l’IUAS e la rivista Oppositions.
New York è una città di formazione e cultura sostanzialmente razionalista. Lo è stata in passato nei confronti del movimento organico ed in un certo qual modo lo è tuttora oggi nel rifiuto di nuove esperienze. E’ una cultura radicata, basta ricordare in passato i problemi avuti da Wright per la costruzione del Guggenheim. L’espressionismo astratto di Pollock ha radici lontane da quella città ed anche John Cage nasce a Los Angeles. A New York sono possibili speculazioni culturali anche avanzatissime, vedi quelle di Eisenman, ma la costruzione della città si riferisce a modelli precisi. Dovremmo a questo punto chiederci: perché il fenomeno della West Coast? Risponderei: per il fatto che ha rappresentato l’ultima frontiera e quindi territorio dove le culture si sono più mescolate, dove i limiti erano meno evidenti, l’ibrido è la cultura delle frontiere e nella frontiera americana un certo puritanesimo anglosassone non è riuscito ad essere cultura dominante. Per questo motivo è stata ed è più aperta al nuovo.
Tra gli architetti presenti alla mostra chi l’ha interessata di più come ricerca?
Frank O. Gehry fino ad un certo punto, Coop Himmelblau .
Visto che siamo in tema mi piacerebbe approfondire il suo rapporto con le altre arti visive. Ho visto più volte citato il suo interesse esplicito per il Dada. Ha voglia di parlarne?
Dada è stato uno dei miei primi grandi amori. Lo è stato anche il futurismo ma la differenza sostanziale tra i due è che Marinetti, ed anche Andrè Breton per il surrealismo, avevano formulato nei manifesti regole precise, avevano organizzato una impalcatura ideologica intorno alla quale operare, il dadaismo viceversa non propone regole e non propone limiti : La stessa parola Dada non significa nulla e sento di essere vicino alle parole pronunciate da Tristan Tzara nel 1918: ”io sono contro tutti i sistemi”.
E che rapporto c’è tra questi interessi e il suo approccio con l’architettura?
La comunanza nel non proporre limiti.
Tutto questo mi fa pensare che sia interessante che lei ci racconti il suo rapporto con la contemporaneità in generale.
Lo dico perché secondo me è un nodo cruciale del nostro Paese oggi. La nostra cultura, disciplinare e no, per molte e nobili ragioni, ha costruito un rapporto difficile con la contemporaneità. Da un lato si sono scritte (e anche a tratti praticate) grandi riflessioni sulla condizione di crisi che la modernità instaura nella società contemporanea, dall’altro si è creata una frattura molto profonda tra queste analisi e delle vie di uscite operative. Io credo che la condizione di crisi della contemporaneità sia un dato certo e innegabile a meno di non voler essere reazionari, ma allo stesso tempo mi spertico a dire con tutta la forza che ho che la crisi ha una fortissima connotazione operativa, che se comprendiamo laicamente lo status quo possiamo interferire con esso.
Devo dire che questa è una delle cose che più mi hanno avvicinato a Tschumi diversi anni fa e che proprio questa sintonia sia alla base del rapporto che poi si è creato con Bernard, anche a prescindere dal mio interesse scientifico per la sua opera.
Bruno Zevi affermava che la modernità interviene quando dalla crisi si acquisiscono dei valori, concetto preso da Jean Baudrillard. La modernità quindi è all’interno della crisi, ma per affermarne i valori si devono necessariamente decostruire i linguaggi. Decostruire significa a questo punto azzerare una lingua e proporre una estetica di rottura rispetto agli schemi istituzionalizzati. Ogni crisi porta grandi accelerazioni, rifiuta i modelli universali, e propone contingenze autonome e soggettive: Eisenman parta avanti la fine del fine o la fine del mito del fine, Tschumi propone un metodo disgiuntivo ma con limiti, anche se è poi il limite a portare alla trasgressione, Gehry risemantizza spazzatura e detriti…………
Come dicevo penso che se vista in questa maniera laica e come elemento imprescindibile del contemporaneo la crisi sia una straordinaria opportunità e questo permette anche di costruire quindi dei sistemi di saperi e di strumentazioni operative (chiamarle regole mi pare profondamente incongruente e sbagliato). Secondo lei quale è il ruolo degli esempi per un architetto italiano di oggi? Esempi sia intesi come riferimenti architettonici che come persone.
Ogni architetto ha probabilmente una formazione culturale già matura. Ad un ragazzo direi di girare molto e guardare con gli occhi di chi vuole capire per assimilare e far propria l’esperienza maturata da altri.
Mi piacerebbe che parlasse della condizione italiana oggi. Una domanda secca, esiste l’architettura italiana?
Una domanda molto complessa perché pone interrogativi plurimi. Inizierei dal Movimento Moderno. L’Italia partecipa al M.M. tardivamente, le matrici generative sono state vissute in modo epidermico e come moda, l’Europa si forma con Van de Velde e Victor Horta, noi abbiamo avuto Ernesto Basile. Se paragono l’opera di Basile a quella di Van de Velde mi viene un certo senso di tristezza, inoltre quando Horta disegnava la casa in Rue de Turin, Sacconi costruiva a Roma l’altare della patria. Non sono certamente delle solide fondamenta. Mentre in Francia, Germania e nel Regno Unito alcuni quesiti erano stati risolti e la modernità affondava le radici in una lunga tradizione non era così in Italia. Ed è proprio questo il motivo che furono pochi gli architetti che si trovarono in piena sintonia con le tesi di Gropius e Le Corbu ma quei pochi, senza cadute o deroghe, rientrano pienamente nel dibattito internazionale. Lavoravano sulle basi del razionalismo europeo elaborando risposte che seppur differenti rientrano in una visione internazionale. Figini e Pollini lavoravano sulla leggerezza ed il loro razionalismo è etereo, in Terragni era preminente l’uso della materia. C’è da dire anche che fu un razionalismo tronco: Terragni, l’unico che l’Europa poteva invidiarci, muore giovanissimo, Pagano muore assassinato a Mauthausen, la stessa sorte capita a Banfi, altri alternarono grandi lavori a cadute repentine portando avanti una continua mediazione con un velato classicismo. Nella lettura per generazioni fatta da Franco Purini qualche mese fa, a mio avviso, è la prima generazione, che non riesce a mantenere una visione internazionale del fare architettura ed opera una scelta che seppur autonoma, isola l’Italia e pone le basi per una crisi che solo successivamente diventerà evidente. Altro punto critico per l’architettura italiana fu quello di condividere quasi totalmente le tesi postmoderniste, gli architetti che non lavoravano all’interno di quelle ipotesi erano una sorta di emarginati che non avevano alcun peso nei centri di produzione culturale. Questo è un fatto estremamente negativo perché se da un lato l’Italia entra pienamente nei dibattiti internazionali, anzi per alcuni versi diventa il centro planetario, dall’altro per il fatto che aveva legato il proprio futuro unicamente a quelle ipotesi e per due decenni, decisivi, non vi è stato alcun dibattito ha posto il nostro paese in una condizione di estremo disagio. Bisogna dar merito a Bruno Zevi di avere presagito immediatamente la disfatta postmodernista e di essere rimasto, seppur isolato insieme ad un piccolo gruppo di persone, fedele alle tesi di una modernità saldamente legata alla storia. L’equilibrio fu inizialmente rotto dalla mostra al MOMA nel ’88 non perché quella mostra ebbe in Italia un peso culturale ma perché sposta il baricentro internazionale verso altri linguaggi e pone il nostro paese in una condizione di isolamento. Si riproponevano le antiche ed irrisolte questioni di identità relative alla prima generazione successiva a quella del M.M. E’ questo il motivo, a mio avviso, per il quale non può esserci una architettura italiana intesa come appartenenza ad una lingua ed ancora meno come mediazione con la storia, perché non è possibile dire che l’Italia è un paese particolare, dove basta varcare l’uscio di casa per avere un contatto continuo con la storia e da questo contatto l’architetto deve porsi in una condizione di subalternità culturale. E’ anche certo che una omologazione planetaria non è possibile. Sono proprio i linguaggi della modernità a far si che non sia possibile per il semplice fatto che è la modernità stessa a rifiutare la omologazione perché elemento costitutivo sono le crisi dei valori consolidati e le contraddizioni. Ritornando alle generazioni della lettura puriniana penso che siano le ultime due generazioni quelle più esposte ai rischi di una omologazione: disincantati, privi dei valori stabili, guardano Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Peter Eisenman ma non indagano come questi si sono formati, per il semplice fatto che le generazioni che le hanno precedute, loro insegnanti, non avevano assimilato, introitato, digerito i valori della modernità di riferimento di quelle figure internazionali, con il rischio di venire usati proprio da quei mezzi elettronici che la tecnica mette oggi a loro disposizione.
Esiste oggi la reale opportunità di fare gruppo oggi? Penso sia alle continue sollecitazioni di Luca Cordero di Montezemolo e di Confindustria a “fare squadra” sia alla possibilità di costruire un sistema diciamo per capirci “di avanguardia”, ovvero di gente che si sostiene vicendevolmente su alcuni grandi temi.
Non credo molto nel gruppo, e se fare gruppo significa poi protezionismo diventa una sciagura perché sottintende posizioni isolazioniste.
Questo tema mi interessa molto perché il modello del così detto Star system parerebbe incoraggiare la creazione di singole individualità. Se analizziamo con attenzione le pratiche di comunicazione vediamo come nell’attuale contesto appaia premiante costruire una posizione visibile autonoma, lavorare con dei distinguo, dei “io sono diverso da tutti” anche se poi molte soluzioni architettoniche si assomigliano. Anzi forse più tutti si assomigliano, come avviene in questi ultimi anni, più i singoli architetti vogliono affermare la propria singola posizione. È un fenomeno interessante perché nega completamente l’appartenenza di elite su cui si è fondato tutto il mito delle avanguardie del Novecento. È un grosso problema anche filosofico in fondo – benché io non ami molto quando gli architetti parlano di filosofia o che citano filosofi – un architetto e saggista molto interessante come Yona Friedman vede come unica possibilità di comunicare nella nostra società quello di farlo al proprio “gruppo critico”, per sottoinsiemi che si capiscono, per avanguardie se vogliamo forzare la mano a Friedman e parlare con termini che gli architetti capiscono meglio. È un cane che si morde la coda e che mostra secondo me il cortocircuito della attuale comunicazione che mi pare produrre architettura sempre più banale. Quello che mi interessa del discorso sulla comunicazione non è tanto il prodotto dell’architettura contemporanea, che da un lato in questi anni è interessante e ricco di spunti, ma di come questo approccio finisca per omologare gli architetti e, in ultima analisi, per dequalificarli. Se il punto è essere sulla cresta dell’onda mediatica allora ci sono immediatamente altre figure professionali che possono essere poi competenti. Non a caso Giorgio Armani si è messo a disegnare mobili e moltissimi designer puri oramai fanno più metri cubi di tantissimi architetti. Più gli architetti si occupano di rivestimenti e comunicazione e più vengono intercettati da altre figure, tanto più che il disegno esecutivo e la cantierizzazione viene sempre più appaltato altrove.
L’architettura come atto creativo deve essere necessariamente qualcosa di individuale. Non si tratta però della figura dell’architetto demiurgo che ritengo ormai spazzata via, ne si tratta del processo formativo dell’opera d’arte, esposto da Brandi, tra costituzione dell’oggetto e formulazione dell’immagine, si tratta specificatamente dei processi di creazione dello spazio che non possono che riguardare l’individualità. Personalmente amo avere con l’architettura un approccio artigianale. E’ la logica del gruppo che porta ad una omologazione perché il gruppo deve necessariamente agire attraverso un catalogo di ipotesi e soluzioni. E questo penso sia riduttivo. Altra cosa è invece l’apporto che il singolo specialista può dare al lavoro. Ritengo questo indispensabile oltre che produttivo per la specificità e complessità delle problematiche che interagiscono oggi in una realizzazione architettonica. Non è un caso che molti architetti superano la fase che potremmo definire sostanzialmente privata per interessarsi solo degli aspetti comunicativi, cioè di qualcosa che non ha materialità. Ed ha ragione lei nell’ affermare che la comunicazione la fa molto meglio il designer. E’ proprio in tal modo che l’architetto viene surclassato da altre figure.
Le confesso che l’aspetto che più mi ha colpito all’inizio del suo lavoro e che mi ha portato ad accettare di studiare meglio la sua opera per fare questo libro è quello che chiamerei un “grande senso della possibilità” che esce dalla sua opera. Lei dimostra molto bene come sia possibile operare nel nostro contesto facendo scelte apparentemente più complesse e questo mi colpisce sempre, mi pare un segnale positivo da dare al dibattito del nostro Paese in un momento in cui sentiamo molti lamenti levarsi dalle bocche degli architetti.
Penso si tratti di sfruttare al meglio le possibilità e le opportunità che si creano, senza remore e timori, anche da una piccolissima cosa ne può scaturire un grande opportunità.
Mi vuole parlare dei suoi rapporti con la committenza privata? Sia raccontando magari dei casi specifici, sia facendo un punto della situazione a partire dalla sua esperienza diretta.
La committenza privata chiede all’ architetto quasi esclusivamente case. La casa rappresenta la sfera privata dell’individuo, una sorta di microcosmo all’interno del quale ognuno scarica le proprie ansie sociali e concretizza nello spazio abitativo i personali modi di rapportarsi alla società. Lo spazio casa rappresenta così un piccolo universo privato da contrapporre all’universo pubblico con un fascino sempre presente. Un fascino che ha fornito l’occasione dei più grossi trionfi dell’architettura moderna, si pensi alla Fallingwater oppure alla Ville Savoye ed all’enorme peso che queste opere hanno esercitato nei confronti di generazioni di architetti. Ed il privato quasi sempre ha una immagine precisa dello spazio della sua casa. L’architetto deve operare in tal senso una mediazione tra le esigenze della committenza,cioè lo spazio che la committenza privata immagina per soddisfare le proprie aspettative e l’idea di spazio di ognuno di noi . Non è cosa semplice. La committenza pubblica, viceversa, non ha mai le idee molto chiare, e per quanto riguarda i linguaggi lascia molta libertà.
Che rapporto ha con i collaboratori interni? Chi viene a lavorare da lei e con quali prospettive o interessi? Glielo chiedo perché in questi ultimi dieci anni si è formata una nuova generazione di architetti che si sposta molto da uno studio all’altro anche all’estero e credo che il rapporto con questa generazione sia potenzialmente diverso che con quella precedente. Su questo mi piacerebbe poter fare una verifica di una mia idea. Ho la fortuna di insegnare e in questi anni ho girato diverse facoltà in Italia e all’estero e mi sono accorto che mentre all’estero quel processo di internazionalizzazione per cui esiste molta mobilità dei giovani negli studi sta continuando ed è una caratteristica inevitabile della globalizzazione, in Italia la generazione che si sta laureando adesso è piuttosto conservatrice o per lo meno impaurita dal confronto e cerca molto di più un lavoro che di perseguire i propri sogni e le proprie ambizioni. Siccome non credo che la mia generazione, diciamo quelli che i trent’anni li hanno superati, sia stata particolarmente utopista, ma anzi abbia metabolizzato il cinismo con grande determinazione, io vedo questo fenomeno con un certo timore. Shakespeare diceva che gli uomini sono fatti della sostanza di cui sono fatti i loro sogni e io vedo pochissima gente sognare. Lei che impressione ha delle generazioni più giovani?
La mia impressione sui giovani? Timore, paura, mancanza di prospettive, lei li chiama sogni. Purtroppo i giovani oggi non sono molto motivati. Il mio studio ha una dimensione artigianale, mi piace il controllo. Ricordo che durante un incontro in cui si parlava di Carlo Scarpa intervenne Ludovico Quadroni : lamentava, anche con se stesso, il fatto che molti progetti negli studi professionali dopo una veloce ed approssimata spiegazione venivano demandati ad una spicciola manovalanza, l’architetto esautorava se stesso dai processi di controllo. Spiegava che nello studio di Carlo Scarpa, per l’approccio che l’architetto aveva nei confronti del progetto derivante da una educazione di marca viennese, questo non avveniva mai.
Visto che siamo in argomento mi farebbe piacere se volesse parlare del suo rapporto con le scuole di architettura di oggi. Come le vede un professionista e come le vede l’architetto che porta avanti una sua ricerca con la determinazione con cui lo fa lei?
Ho pochissimi contatti con le università. Se dovessi analizzare in due righe la situazione italiana direi che esiste un livellamento qualitativo generale e le sedi sono ormai quasi provincializzate, non vi è competizione, ed un docente nasce e muore nella stessa sede. Tutto ciò è negativo. La mia idea? Il ’90% di contratti a termine ed un vorticoso giro di insegnanti. Come avviene nel mondo del calcio.
Quale è, secondo lei, il suo progetto più riuscito e perché?
Fra tutti preferisco quella che verrà, ogni mio lavoro, sia per deficienze imputabili al mio operato che a quello realizzativo, mi ha deluso, certamente non lo farei nello stesso modo.
E qualche incarico che non avrebbe dovuto accettare? Lo dico perché secondo me oggi, soprattutto i più giovani, hanno pochissimi punti di riferimento nell’approccio con il mestiere e credo sia importante sentire la voce dei professionisti.
Non esiste un incarico che non si deve accettare. E’ importante però non scendere a compromessi compromettenti.
Come inizia lei un progetto?
Inizio un progetto pensando molto. Solo più tardi comincio a disegnare, ma sono solo sogni. Si racconta che Mies prima di iniziare un progetto si recava sull’ area e stava lì seduto, su uno sgabellino che portava dietro, per qualche giorno. Forse è meglio il suo metodo!
I suoi progetti hanno un rapporto sempre complesso tra interno ed esterno, uno dei grandi temi della contemporaneità. Mi piacerebbe che lei parlasse di questo aspetto della progettazione. In generale quale è per lei il rapporto tra l’architettura e lo spazio che essa genera. Mi pare che la concezione spaziale del progetto sia una delle sue preoccupazioni primarie e quindi sia molto interessante avere una sua riflessione su questo, anche in virtù del fatto che troppo spesso questo aspetto è poco considerato in Italia.
La soluzione di continuità tra interno ed esterno è uno dei temi dominanti della modernità, ugualmente è stato uno dei temi più indagati. Risulta un tema superfluo solo quando l’architettura si pone nella condizione di staticità visiva, mi riferisco ad una certa architettura disegnata. I grandi capolavori della storia lavorano sulle tematiche della integrazione tra interno ed esterno: Michelangiolo nell’abside del Tempio Vaticano forse realizza un interno nell’esterno e viceversa, lo stesso Leonardo cerca di dare risposte scientifiche al tema quando studia il negativo: l’architettura come “un togliere” da una entità molto più vasta. Indagine esaustiva nell’ opera di F.L. Wright. Indubbiamente è un aspetto che mi interessa molto.
Come lei sa mi sono occupato a lungo dell’opera di Bernard Tschumi che teorizza con grande attenzione il primato dell’ Evento rispetto alla mera spazialità dell’opera. Non c’è architettura senza evento, senza che essa sia esperita dice lui. Come si pone rispetto a questo lei?
Nessuna architettura può essere interpretata in termini moderni senza studiare le dinamiche che si svolgono all’ interno della stessa. Una certa scuola rinascimentale progettava l’edificio partendo dal prospetto, elaborando una teoria compositiva unicamente finalizzata al Disegno del prospetto. Ciò che si svolgeva al di la del prospetto diventava un fatto accessorio. Il postmodernismo ha fatto qualcosa di simile: l’evento che si svolgeva all’ interno dell’architettura diventava una cosa non necessaria per il fatto che era proprio l’architettura che si doveva piegare al segno ed alla volontà di comporre con volumi iconici.
Che rapporto hanno i fruitori delle sue opere?
Nel bene e nel male i miei progetti fanno discutere. Un ricordo sulla sistemazione dell’area archeologica di Piazza Toscano a Cosenza: ad un certo punto sono apparse delle scritte che invitavano a suicidarmi. Avevo, secondo loro, violentato la storia. Naturalmente non ho seguito il consiglio.
Per molti architetti (vedi il giovane Eisenman) chi vive nelle proprie opere è una sorta di intruso che contamina con le proprie scelte progettuali. Lei come reputa questo e che effetto le fa vedere le sue opere vissute da altre persone che fanno scelte diverse dal suo progetto.
Penso che l’architetto deve mettere la propria conoscenza a disposizione della collettività. Il resto sono puri intellettualismi.
Per chiudere, che opera sogna di realizzare?
Una grande cattedrale. Come le grandi cattedrali gotiche.