Intervista a cura di Giovanni Damiani pubblicata in “Marcello Guido- Espressioni Contemporanee”, Mancosu Editore, Roma 2007

Vorrei cominciare questa intervista chiedendole delle sue origini e della sua terra di Calabria. Le pongo questa domanda perché penso che anche se lei pratica un’architettura legata ad un dibattito più internazionale esista un rapporto stretto e fecondo con il fatto che lei opera in Calabria e in generale nel Sud. È quanto sto cercando di evidenziare anche nello scritto di apertura e che secondo me è bene che sia discusso.

Sono nato ad Acri. Acri è un centro dell’entroterra calabrese  nell’area collinare del massiccio  della Sila. Di formazione sostanzialmente contadina  assomma  tutte le contraddizioni  della condizione meridionale. Estremamente  arretrato fino agli anni ’50, brucia, come la quasi totalità dei  centri meridionali, le opportunità offerte  dal boom degli anni ’60-’70. Se dal punto di vista economico sono anni in cui  il reddito pro-capite dei calabresi raddoppia, per ciò che riguarda il nostro specifico hanno rappresentato la iattura  più pesante  che il territorio potesse sopportare. Le città si sono gonfiate di edilizia  priva della pur minima qualità e di quella ubriacatura se ne pagano tuttora le conseguenze. Sono anni sciagurati che hanno ipotecato  non solo  il futuro di quella generazione ma anche di quelle che verranno ed  il prezzo da pagare sarà altissimo. Sono cresciuto in  quegli anni. Sono cresciuto intorno e nell’abusivismo di quegli anni,  nello squallore della edilizia  perennemente non finita  ed attenta al solo soddisfacimento primordiale e  materiale del riparo fisico. Si discuteva però tantissimo, molto di più di quanto avviene oggi. Vi era una vivacità culturale  che sarebbe esplosa  nei tardi anni ’60  con la messa in evidenza di contraddizioni  che avrebbero investito  l’intera collettività italiana e planetaria . Mi sono formato all’interno di tutte queste problematiche.

Mi piacerebbe anche che mi parlasse del suo rapporto con la facoltà di architettura a Roma. Lei ha dichiarato più volte la sua affinità a Bruno Zevi, cosa di cui parleremo naturalmente, ma vorrei che raccontasse del suo arrivo a Roma, di come erala Facoltà, la sua vita all’interno dell’Ateneo e della città.

Mi sono iscritto alla facoltà di architettura di Roma nel 1971, ed ancora si sentivano le grida e la puzza dei lacrimogeni   di tre anni prima.  Mi trovai benissimo. Dopotutto anche Roma era piena di problemi e contraddizioni. Ho vissuto in quartieri  che oggi potremmo definire a rischio. Il  San Lorenzo  operaio degli anni ’70 non era il San Lorenzo oggi di moda  e lo stesso centro storico non era  ancora stato parlamentarizzato, nel senso che era ancora  una città “a misura d’uomo” non fagocitata dal turismo e  non omologata.  Ho passato intere giornate in San Pietro  e non si aveva il senso di fastidio che si avverte oggi  entrando in un qualsiasi posto dove orde di cavallette turistiche devono consumare tutto e subito  in ossequio al vivere contemporaneo. Potremmo dire che il tempo scorreva più lento… Amavo la musica classica ma  è a Roma che  ho scoperto la  musica contemporanea. Nei cineforum di Trastevere conobbi Sylvano Bussotti  e più tardi, tramite Bruno Zevi, conobbi Franco Evangelisti che mi diede  alcune lezioni sulla  musica elettronica. Trovai una facoltà  dove ancora le baronie degli anni ’50 avevano un ruolo primario  ed  amavano contrastarsi a vicenda in modo tale che nessuno potesse prevalere sugli altri, questa è una  prerogativa delle accademie ottocentesche e Roma non si è mai del tutto scrollata di dosso  la struttura delle scuole  accademiche.  Erano anni di grandi  fermenti e di grande  confusione. La  facoltà  aveva  sostanzialmente due riferimenti culturali: Bruno Zevi e Ludovico Quaroni,  il resto era una scomoda eredità del passato. Intorno a queste due figure  si formavano  consensi e dissensi. Da un lato Bruno  Zevi  che non amava formare gruppo, scuola, irascibile e  convinto assertore di una articolazione libera e libertaria, insegnava ma non amava avere e formare cordoni  ombelicali.  Dall’altro Quaroni,  protettivo, paternalistico  e suadente,  al contrario, formava  gruppo e lasciava eredità  di potere.  Il mio riferimento fu immediatamente Zevi,  lo incontrai al secondo anno  e non ho perso più una sua lezione fino alla laurea. Gli riconosco un grande ruolo: quello di avere insegnato le nozioni essenziali della costruzione dello spazio.  Se è pur vero che non si può insegnare a concepire l’architettura, viceversa si può insegnare a capire la costruzione fisica dello  spazio ed ancora di più si possono insegnare   i processi di evoluzione  dello spazio nella storia. Quindi operare all’interno della storia medesima, renderla corpo vivo  e strumento per l’architetto. Si tratta di una nuova ed inedita interpretazione: la storia non è più qualcosa di distante da analizzare in modo asettico ma diventa un mezzo attraverso il quale si possono capire i termini di quella modernità trasversale che investe processi millenari. Il rapporto di Zevi con la  facoltà  fu sempre conflittuale,  negli ultimi anni  si avvertiva una sorta di insofferenza  verso un sistema che non formava  ma sfornava,ed il fatto che volle il suo corso tra gli insegnamenti non obbligatori  stava a significare che chi frequentava lo doveva fare per scelta e non per obbligo.  Mai una lezione nel chiuso conservatorismo disciplinare, erano  piuttosto discussioni aperte: frequentissime le visite di architetti che arrivavano da tutte le parti per spiegare le loro architetture oppure le visite in cantiere.  Tra le tante ricordo bene quelle fatte,  nel corso di qualche mese,  con  Luigi Cosenza  nel cantiere per l’ampliamento  della Galleria Nazionale di Arte Moderna, oppure  le visite nello studio di  Corrado Cagli a Trastevere. Veramente un bel ricordo.

Credo che sia interessante affrontare da subito il rapporto con Zevi e lo farei partendo da una domanda molto banale. Com’è stato Zevi come maestro?

“Maestro” significa  formare una scuola, e formare una scuola in un certo qual modo sottintende una strutturazione accademica.  Bruno Zevi è stato  molto di più.

 Le ho chiesto questo perché Zevi, oltre al suo indubbio grande contributo alla diffusione dell’architettura moderna in Italia e a un corpus di opere di valore ha lasciato un grande ricordo nei suoi allievi. Non voglio ora entrare nelle eterne considerazioni se Zevi abbia avuto allievi o meno, ma chi ha studiato con Zevi è sempre molto fiero di averlo fatto, si sente parte di un percorso, di una identità. Zevi in questo deve essere stato bravissimo davvero. È come se tutte le persone che si sentono contro un certo establishment accademico, sociale o anche solo un immaginario figurativo – in una facoltà di architettura queste figure abbondano, come sappiamo– si potessero riconoscere dall’appartenenza al sistema di contropensiero  zeviano. Questo mi ha sempre interessato moltissimo per una duplice ragione data dal fatto che io ho studiato a Venezia dove abbondava la dimensione mitologica di alcune figure, sia perché, per questioni generazionali, ho vissuto la caduta fuori dal mito.

Penso che la lezione di Zevi non possa essere interpretata come ricordo, esiste un corpo di opere che esprimono il suo pensiero ed il suo pensiero è a nostra  disposizione, in tal senso la sua lezione non si è mai interrotta. E’ questo in verità il suo  grande lascito.  Si può parlare con Zevi   ancora oggi e  si potrà studiare insieme a lui  tra  un secolo. Questa è una  prerogativa concessa solo ai  grandi. E’ stato senza dubbio uno dei pensatori-innovatori del secolo scorso  perché, come dicevo prima,  offriva una lettura inedita della storia dell’architettura che fino al primo dopoguerra restava  ancora  legata ad una  impostazione compartimentata e svincolata dalla comparazione,dalla società, dalla critica intesa come indicazione di una possibilità operativa per l’architetto. La sua lezione è stata quella di far capire i termini di una modernità che non è legata propriamente  alle contingenze temporali a noi più  vicine ma attraversa cinque millenni di storia dell’architettura e capire queste trasversalità  significa  entrare nella modernità.  Cosa possono avere in comune il tempio di Bacco a Balbeek, Michelangiolo, il Cavalier Boromino  e l’atrio del Guggenheim di  Bilbao  è qualcosa che si riesce ad intuire solo se si assimila il suo modo di guardare la costruzione dello spazio nella storia. Non ammetteva deroghe su questa  visione della storia. Penso sia stato questo, ad esempio, il suo grande  fastidio per come Paolo Portoghesi  guardava a Francesco  Castelli , Cavalier Boromino. Il legame tra Boromino e la modernità non può essere definito attraverso  similitudini formali  affidate alla bidimensionalità di  piante e  prospetti ma è cosa molto più complessa. Prendere archetipi formali  dalla storia è stato il grande limite della  esperienza postmodernista e penso sia stato questo uno dei motivi essenziali per il quale  quelle esperienze furono vissute dai più  come moda e furono spazzate via  nel giro di qualche decennio. Prerogativa poi delle accademizzazioni è il mitizzare le figure,  quando  si vuole  obliterare una lezione si  mitizza il personaggio, la sua esperienza viene vista come qualcosa di  irraggiungibile ed intoccabile, è accaduto in passato  per alcuni grandi architetti ed accade oggi in Italia  quando si concede la deroga  unicamente  al “maestro” e quindi   ciò che il “maestro” realizza  non può essere traslato nella pratica quotidiana. Bruno Zevi era contro i miti ed il suo pensiero espresso  in tanti  suoi  scritti non potrà mai essere mitizzato. Altra cosa è la nostalgia  per non avere la possibilità di avere più contatti con  la persona fisica , ma riguarda un fatto puramente affettivo per  coloro che hanno avuto la possibilità di conoscerlo.

Quindi esistono gli zeviani?

 Esistono oggi, ma zeviani nasceranno anche tra un secolo se si intende per  “zeviano” un modo di guardare ed indagare la storia.

Vorrei insistere sulla questione Zevi focalizzando un altro aspetto che mi pare decisivo dell’opera critica complessiva di Zevi stesso, ovvero il forte carattere operativo che ha sempre dato al suo approccio critico, che per chi come me si è formato a Venezia è motivo di interessanti speculazioni storiografiche. Da un lato sono portato a comprendere benissimo cosa volesse portare avanti Tafuri quando affermò con forza che c’è solo la storia e non la critica, ma dall’altro vedo anche come questo abbia generato uno specialismo che ha penalizzato molto la dimensione pratica dell’architettura, abbandonata a se stessa e alle regole del puro mercato. Lei pratica un’architettura, che interessi o meno il suo linguaggio, comunque difficile e che cerca un confronto con una dimensione teorica e per questo mi interessava una sua opinione sull’annoso tema teorico italiano, se cioè storia e progetto possano stare assieme.

Il problema resta sempre nel rapporto tra la storia, lo storico e l’architetto. Certamente  lo specialismo  di cui lei parla  può  anche essere per alcuni versi produttivo, perché  da ulteriori informazioni.  Ma lo storico non può  mettersi  esclusivamente  in una condizione di distanza  artificiale  ed analizzare gli eventi in modo asettico, deve necessariamente  rendere comunicabile un linguaggio. Brunelleschi, Michelangiolo, Ghery e tanti altri hanno  prodotto linguaggi  comuni, anticlassici,  ma non hanno indicato  un codice   affinché questi linguaggi potessero essere  trasmessi. Se Michelangiolo, ad esempio, avesse avuto il modo di codificare  le esplosioni spaziali espresse nelle fortificazioni, oppure un critico avesse avuto modo di interpretare, spiegare ed incentivare quelle esperienze, si sarebbe avuta, nella storia dell’architettura, una accelerazione di  circa 300 anni. Ma cosi non è stato, e quelle esperienze sono state obliterate  proprio dai discepoli che  mitizzandone la figura  le rendevano non comunicabili. E’ anche certo il fatto che  le modernità  azzerano costantemente i propri linguaggi  così da avere  una ulteriore  difficoltà interpretativa e comunicativa, compito dello storico, a mio avviso, è quello di dare una indicazione  espressa non in regole convenzionali ma in concetti  linguistici,  dare cioè  all’architetto  una possibilità  ed una strada da percorrere.  In tal senso la storia non solo farà parte dei processi linguistici ma ne diventerà parte integrante e dovrà necessariamente  essere interpretata come narrazione continua. Ma  i codici , di contro, possono intendere una  strutturazione del pensiero fissa ed immobile  ed il rischio è reale. E’ possibile realizzare dei codici “non statici” ma dinamici e mutevoli?

Per rimanere sulla figura di Zevi un’altra cosa che mi ha sempre interessato è che molti allievi o persone che comunque si dicono influenzate da Zevi rimangono anche vicini ad alcuni architetti o modelli che Zevi ha portato avanti. Anche lei in altre interviste ha citato Borromini o Mendelshon tra gli architetti che l’hanno più interessata. Secondo lei come mai questo fenomeno è una costante? Mi piacerebbe anche che sia l’occasione per raccontare come avvenivano le dinamiche zeviane che poi hanno generato questo fenomeno?

Avere riferimenti  non è una costante ma è un definire il proprio pensiero  con la storia e nella storia.  Cercherò di essere concreto: un bimbo apprende il linguaggio attraverso  la conoscenza,  ed è proprio questa  che veicola il neonato  verso  la acquisizioni materiali.  Le conoscenze immateriali  sono più complesse,  la gioia,  il dolore non fisico, il senso estetico, sono qualcosa  che si  acquisiscono quando le conoscenze materiali sono  ad uno stadio maturo. Dovremmo chiederci: è  possibile creare lo spazio senza acquisire le esperienze passate?  Esiste un legame  tra  eventi temporali distanti nel tempo ma che esprimono  le stesse tensioni culturali?  Se il legame esiste, può essere traslato nella  fare  contemporaneo? Se la storia è  un  processo continuo e concatenato di eventi  le esperienze del passato possono entrare  nelle dinamiche contemporanee. Naturalmente ciò dovrà  riguardare   i linguaggi e non i formalismi. In questi termini  non  vi trovo nulla di strano  considerare il Cavalier Boromino  nostro contemporaneo. Non dobbiamo dimenticare che le esperienze postmoderniste nascono negli anni ’70 con Luis Kahn  che riproponeva una architettura che si sviluppava con forme archetipe prese in prestito  dal passato. Una  intellettualizzazione  che portava l’architettura ad avere  un solo riferimento: il disegno ed nel disegno  la dimensione bidimensionale. Ne venivano fuori disegni  anche piacevoli  da osservare dal punto di vista unicamente speculativo del segno,  ma lo  spazio che si generava attraverso quei segni era una sorta di  non-spazio.

Visto che siamo in argomento, quali sono gli architetti che più l’hanno influenzata?

Molti.  Ne cito  alcuni: Gli architetti degli spazi ipogeici della prima età cristiana, Michelangiolo nell’abside del Tempio Vaticano , Boromino nel San Carlino, Lanfranco nel Duomo di Modena, Hans Scharoun  nella  philharmonie. Gaudi nella  cripta Guell…

Come mai, proprio questi? Esiste un filo rosso che li lega apertamente?

Hanno lavorato all’interno della modernità indagando la complessità.

Le ho fatto questa domanda perché sono interessato a capire come gli architetti guardano le opere degli altri architetti. In altri termini come si forma il proprio gusto e i propri interessi. Credo possa avvenire in molti modi, per fascinazione formale, per affezione ideologica, per vicinanza di carattere con il personaggio. Lei come la pensa?

Gli interessi si formano con la ricerca, con gli interrogativi, con il  chiedersi costantemente  i perché,  deve esserci poi una comunanza sostanziale  di  pensieri. In tal senso mi sento più vicino  a  Boromino che non a L. Battista Alberti, più vicino a Scharoun che non a Mies, più vicino ad Owen Moss che non a Chipperfield. Il carattere è viceversa  un fatto privato e  penso conti poco. Boromino era ipocondriaco, Scharoun scostante e permaloso e Lanfranco suadente fino ad essere  osannato: Mirabilis Artifex, Wright  elegante e raffinato al contrario di Gaudì che faceva una vita di privazioni e quando mori  fu scambiato per un mendicante.

Senta visto che stiamo parlando di architettura mi piacerebbe sapere una sua opinione sugli strumenti dell’architetto. Intanto le chiedo cosa è per lei l’architettura?

L’architettura deve sostanzialmente  essere al sevizio dell’uomo ma deve esprimere  le ansie, le aspettative, le prerogative, le culture delle società che la pensano e costruiscono. In questa ottica lo spazio non dovrebbe  essere statico e finito ma in continua mutazione. Ciò porta al concetto del  temporaneo.   Penso che se volessimo essere realmente moderni e contemporanei dovremmo scrollarci di dosso il concetto di finito e duraturo nel senso di perpetuo. Elemento genetico della modernità, contro le accademie, è la mutazione continua e quindi la temporaneità. Viceversa è la nostra formazione accademica che ci porta a musealizzare tutto quanto ci circonda così da renderlo intoccabile.

 L’architettura che rapporto ha con la forma e secondo lei esiste un architettura a prescindere dalla forma? Lo chiedo perché secondo me su questo punto ruota tutto il perno centrale della decostruzione come possibile apparato linguistico.

L’architettura è sostanzialmente costruzione  dello spazio. Ed è lo spazio a diventare forma.  Ma se la forma si piega  ad una ideologia astratta, cioè non accetta di svilupparsi nel processo dinamico del proprio svolgersi  assume una valenza  preponderante e diventa ponte per  riallacciarsi ad un passato ormai finito senza entrare in contatto con la contemporaneità. Vi è un magnifico passo dell’Eliante  in cui Brandi afferma che  la spiritualità umana   avverte la necessità  di superare il bisogno pratico  nel suo stesso bisogno. L’architettura, lo spazio si svincola a questo punto dal suo essere unicamente riparo, non  per  essere realtà esistenziale esterna allo spirito ma sua espressione. Forse questo è il concetto di forma al quale io posso riferirmi. Non bisogna dimenticare poi che in alcuni casi  è la non-forma a veicolare i processi creativi, mi riferisco al non-finito michelangiolesco   in cui  il processo creativo non è illustrativo  ma è sostanzialmente  espressivo, in tal senso  la creazione si sviluppa e si concretizza anche nella non-forma  lasciando semplici interrogazioni  all’osservatore. Una forma svincolata dalla scatola,  una forma non più contenuta nella scatola, con pareti prive di spessore,  non è forse questa la prossima frontiera?

 Piante Sezioni e Prospetti quanto contano per lei? Questo tema mi interessa molto in questo periodo, io mi sono formato tra gli ultimi a cui veniva predicato un primato della regola e negli stessi anni in cui esplodeva completamente il fenomeno, anche in Italia, di una certa architettura che voleva liberare le forme. Nei miei anni di università questo fenomeno era un punto di confronto serrato, ricordo. Oggi però, soprattutto quando ho avuto modo di lavorare in facoltà straniere vedo che si è perso completamente quell’apparto di regole che la generazione precedente voleva trasgredire. In altri termini da un gesto di rottura dalle immanenze dell’architettura e delle tipologie è emerso una sorta di liberi tutti in cui quelli che erano gesti di rottura mi sembrano essere banali formalismi. Ricordo uno dei primi workshop all’estero nei primi anni di facoltà in cui mi venne raccontato di come, negli anni Settanta alcuni architetti rompevano le squadrette, contro gli angoli retti e di come mi parve una cosa coerente e interessante come gesto. Oggi però, spero non per conservatorismo anticipato, vedo che nessuno sa più neppure usare le squadrette e mi pare che non ci sia nessuna rottura concettuale in questo, ma solo una pochezza di conoscenza.

Piante prospetti e sezioni contano pochissimo, servono  solo ai fini realizzativi, personalmente affido molto peso al disegno, inteso come stratificazione di segni e  metafora dei nostri sogni, una mediazione progressiva tra il pensiero e la realtà. Affido al disegno una sorta di  collegamento tra il nostro immaginario e la realtà. Scarpa chiudeva questi processi nel verum ipsum factum, e la frase presa in prestito da Vico  sintetizza abbastanza bene questi concetti. Certo che nella creazione spaziale il segno resta  il primo stadio, deve passare  poi attraverso un processo di decantazione che porterà  alla definizione definitiva dell’architettura. In questi processi la squadretta non ha più valore, tanto è  che  Frank Ghery  per  realizzare le sue opere usa il modello e ricava attraverso una  scansione  volumetrica  dello stesso modello le piante di cantiere. Personalmente uso il modello materiale  per il  controllo spaziale,  ed il modello virtuale  per le  piante di cantiere.

 Lei come autodefinirebbe la sua ricerca?

Quasi sufficiente. Non sono molto  largo in voti.

La scelta di un linguaggio come quello della decostruzione quale senso ha rispetto al contesto in cui lei opera e in Italia? Lo dico perché immagino che molti, soprattutto quegli architetti che più sono cresciuti nel mito del contestualismo saranno storditi dalle sue forme. La cosa curiosa è che molta di quella ricerca sul contesto è virata poi in stilemi postmodernisti che predicano quindi una sorta di libertà di riuso di tutte le forme e che quindi dovrebbero invece essere curiosi di queste ricerche sulla decomposizione delle forme e degli spazi.

In Italia  la decostruzione come linguaggio esiste già da  svariati secoli. Gli spazi ipogeici espressi  negli infiniti percorsi catacombali non esprimono forse  una decostruzione di linguaggio?  Non decostruiscono forse gli architetti che costruiscono la piazza del Campo a Siena? Riguardo al contestualismo vi è da dire che tutti i capolavori dell’architettura  italiana sono decontestualizzati. Il S.Ivo alla Sapienza è forse contestualizzato? Ma ancora prima il Foro di Traiano con i mercati abbarbicati sul costone, oppure la colonna traiana erano  contestualizzati rispetto a cosa? Lo stesso progetto Bramantesco per il Tempio Vaticano  è stato forse  pensato in chiave contestualizzata?  Il parallelepipedo  di Terragni a Como, magistralmente traforato e perforato,  con cosa si contestaulizza? Oppure lo è forse la villa Malaparte a Capri?  Tutti i progetti citati in un certo qual modo hanno suscitato scandalo. Non era forse interpretata come  barbara e priva  delle più elementari regole del purismo ellenico la colonna traiana? Non dovette ipotecare Boromino la propria abitazione per le polemiche suscitate dalle architetture di S.Ivo  che ai più parevano dovessero crollare quanto prima? Per quanto riguarda la mia esperienza, molte polemiche per il mio intervento di  sistemazione dell’area archeologica di  Piazza Toscana a  Cosenza: L’ambizione del progetto   di Cosenza è quella di voler decostruire i linguaggi codificati, colloquiare con la storia in termini paritetici, cosi che l’intervento realizzato entra all’interno di un’area archeologica con  un tratto linguistico dichiaratamente moderno,  esclude qualsiasi intervento mimetico e si pone come evento temporalizzato del nostro specifico ambito storico. I materiali usati sono quelli che più degli altri rappresentano l’appartenenza alla nostra epoca,acciaio cristallo e calcestruzzo e la loro leggibilità è immediata rispetto al reperto storico. Come prima accennavo  è  stato escluso qualsiasi intervento mimetico perché la mimesi è in stretta correlazione con il falso ed al riguardo è lapidario il giudizio  di Cesare Brandi quando afferma  che  il vecchio adagio nostalgico del “dove era come era” non è altro che  una offesa alla storia ed un oltraggio all’estetica perché  pone il tempo in una condizione di reversibilità e pone l’opera nella sfera della riproducibilità. Si è chiesto al manufatto storico di scendere dal piedistallo e di subire la gravitazione  del nostro specifico tempo, si è ristabilita quella unità potenziale dell’opera  senza commettere un falso storico ed un falso artistico. Le vorrei far capire in altri termini che l’esperienza di Cosenza   è desunta dalla storia,  deriva dalla storia stessa  perché  la storia è una delle  variabili linguistiche che  appartengono al progetto. L’alibi del contestualismo  sottintende  altre necessità che sono poi le necessità pensate ed imposte da un  approccio accademico ed accademizzante.

 La sua risposta mi interessa molto perché indubbiamente vi è una forte componente stilistica e formalista in molti architetti definiti decostruttivisti. E questo ci permette di parlare della mostra del MoMa organizzata da Philip Johnson e da Mark Wigley. Lei l’ha vista? Che giudizio ha di quella mostra?

Una mostra, quella del MoMa, importante nella storia dell’architettura contemporanea  perché pone nuovi riferimenti  per il dibattito internazionale e apre nuove prospettive per l’architettura  che in quegli anni risultava paralizzata intorno ai temi del postmodernismo.  Non ho avuto modo di visitarla ma è stata  pluripubblicata e abbiamo avuto tutti modo di studiarla. Non tutti i partecipanti lavoravano sugli stessi temi,  e seguivano percorsi culturali differenti. Merito del camaleontico  Philip Johnson fu quello di capire che il postmodernismo,  di cui era uno dei principali portavoce, era in caduta definitiva e quindi bisognava creare nuove opportunità.   Per la mia personale  esperienza ha  rappresentato  un  punto di transito, una conferma ed uno incentivo ad indagare una  rottura linguistica  che di li a poco si sarebbe imposta a scala planetaria. La cosa che più incuriosisce è che praticamente tutti gli architetti invitati hanno preso le distanze in qualche modo dalla mostra stessa e dalla loro partecipazione. Credo per non venir etichettati come protagonisti di un ennesimo stile secondo le formule così abilmente formulate da Johnson e dimostrando di avere tutti in questo una grande maturità critica. Penso che  gli architetti  che erano stati invitati in quella mostra non  lavoravano su temi codificabili in  uno stile  e portavano avanti istanze difficilmente  inquadrabili in un “manifesto”, che non è stato mai fatto perché non poteva  essere fatto.  Lo stesso termine “decostruttivismo” è stato preso in prestito dagli scritti di Jacques Derrida  ed  il filosofo dava allo stesso  altri significati. Fu in seguito che tramite gli approfondimenti intellettualizzanti di Eisenman e Tschumi  il filosofo francese diventa uno stimolo determinante per  la maggior parte degli architetti coinvolti in quelle esperienze che restano, in ogni caso,  esperienze aperte. Da qui il non riconoscersi in caselle preordinate  che viceversa  potevano  anche stare bene all’organizzatore Johnson .

Come si sa dalla mostra, proprio per le politiche New York-centriche, sono stati esclusi molti architetti californiani e della costa Ovest (il solo Gehry era presente in quanto impossibile da rimuovere). Che rapporto ha lei con l’architettura decostruttivista californiana. Glielo chiedo perché leggendo i suoi progetti vedo delle assonanze più intense con le ricerche della West Coast che con un certo intellettualismo linguistico molto presente alla mostra che, in fondo, altro non è che la declinazione stilistica estrema del grande dibattito sull’autonomia e sul linguaggio che si era sviluppato a New York tra l’IUAS e la rivista Oppositions.

New York è una città di formazione e cultura sostanzialmente razionalista.  Lo è stata in passato nei confronti del movimento organico ed in un certo qual modo lo è tuttora oggi  nel rifiuto di   nuove esperienze. E’ una cultura radicata,  basta ricordare in passato i problemi avuti da Wright per la costruzione del  Guggenheim. L’espressionismo  astratto di  Pollock ha radici lontane da quella città ed anche  John Cage  nasce  a Los Angeles. A New York sono possibili speculazioni culturali anche avanzatissime, vedi quelle di Eisenman,  ma  la costruzione della città si riferisce a modelli precisi. Dovremmo a questo punto chiederci: perché il fenomeno della  West Coast? Risponderei: per il fatto che ha rappresentato l’ultima frontiera e quindi territorio dove le culture si sono più  mescolate, dove i limiti erano meno evidenti, l’ibrido  è la cultura delle frontiere  e  nella frontiera  americana  un certo puritanesimo  anglosassone  non è riuscito ad essere cultura dominante. Per questo motivo  è stata ed è  più aperta al nuovo.

Tra gli architetti presenti alla mostra chi l’ha interessata di più come ricerca?

Frank O. Gehry  fino ad un certo punto, Coop  Himmelblau .

Visto che siamo in tema mi piacerebbe approfondire il suo rapporto con le altre arti visive. Ho visto più volte citato il suo interesse esplicito per il Dada. Ha voglia di parlarne?

Dada  è stato uno dei miei primi grandi amori. Lo è stato anche il futurismo ma  la differenza sostanziale tra  i due  è che  Marinetti, ed anche Andrè Breton per il surrealismo, avevano  formulato nei manifesti regole precise, avevano organizzato una impalcatura ideologica intorno alla quale  operare, il dadaismo viceversa non propone regole  e non propone limiti : La stessa parola Dada   non significa nulla  e sento di essere vicino alle parole pronunciate da   Tristan  Tzara nel 1918:  ”io  sono contro tutti i sistemi”.

 E che rapporto c’è tra questi interessi e il suo approccio con l’architettura?

La comunanza nel non proporre limiti.

Tutto questo mi fa pensare che sia interessante che lei ci racconti il suo rapporto con la contemporaneità in generale.

Lo dico perché secondo me è un nodo cruciale del nostro Paese oggi. La nostra cultura, disciplinare e no, per molte e nobili ragioni, ha costruito un rapporto difficile con la contemporaneità. Da un lato si sono scritte (e anche a tratti praticate) grandi riflessioni sulla condizione di crisi che la modernità instaura nella società contemporanea, dall’altro si è creata una frattura molto profonda tra queste analisi e delle vie di uscite operative. Io credo che la condizione di crisi della contemporaneità sia un dato certo e innegabile a meno di non voler essere reazionari, ma allo stesso tempo mi spertico a dire con tutta la forza che ho che la crisi ha una fortissima connotazione operativa, che se comprendiamo laicamente lo status quo possiamo interferire con esso.

Devo dire che questa è una delle cose che più mi hanno avvicinato a Tschumi diversi anni fa e che proprio questa sintonia sia alla base del rapporto che poi si è creato con Bernard, anche a prescindere dal mio interesse scientifico per la sua opera.

Bruno Zevi affermava che la modernità interviene quando  dalla crisi si acquisiscono dei valori, concetto preso da Jean Baudrillard. La  modernità  quindi è all’interno della crisi, ma per affermarne i valori  si devono necessariamente decostruire i linguaggi. Decostruire significa a questo punto  azzerare una lingua e proporre una estetica di rottura rispetto agli schemi istituzionalizzati. Ogni  crisi porta grandi accelerazioni, rifiuta i modelli universali, e propone  contingenze autonome e soggettive: Eisenman parta avanti la fine del fine o la fine del mito del fine, Tschumi  propone un metodo  disgiuntivo  ma con limiti, anche se  è poi il limite a portare alla trasgressione, Gehry risemantizza  spazzatura e detriti…………

Come dicevo penso che se vista in questa maniera laica e come elemento imprescindibile del contemporaneo la crisi sia una straordinaria opportunità e questo permette anche di costruire quindi dei sistemi di saperi e di strumentazioni operative (chiamarle regole mi pare profondamente incongruente e sbagliato). Secondo lei quale è il ruolo degli esempi per un architetto italiano di oggi? Esempi sia intesi come riferimenti architettonici che come persone.

Ogni  architetto ha probabilmente una formazione culturale già matura. Ad un ragazzo direi di girare molto  e guardare con gli occhi di chi vuole capire per assimilare  e far propria l’esperienza maturata da altri.

Mi piacerebbe che parlasse della condizione italiana oggi. Una domanda secca, esiste l’architettura italiana?

Una domanda molto complessa perché pone interrogativi plurimi. Inizierei dal Movimento Moderno.  L’Italia partecipa al M.M. tardivamente, le matrici generative sono state vissute in modo epidermico e come moda, l’Europa si forma con  Van de Velde e Victor Horta, noi abbiamo avuto Ernesto Basile. Se paragono  l’opera di Basile a quella di Van de Velde mi viene un certo senso di tristezza, inoltre  quando Horta  disegnava la casa in Rue de Turin,  Sacconi costruiva a Roma  l’altare della patria. Non sono certamente delle solide fondamenta. Mentre in Francia, Germania e nel Regno Unito alcuni quesiti erano stati risolti  e la modernità affondava le radici in una lunga tradizione non era così in Italia.  Ed è proprio questo il motivo  che  furono  pochi  gli architetti  che  si trovarono  in  piena sintonia con le tesi di Gropius e Le Corbu  ma quei pochi, senza cadute o deroghe, rientrano  pienamente nel  dibattito internazionale. Lavoravano  sulle basi  del razionalismo  europeo  elaborando  risposte  che seppur differenti rientrano in una visione internazionale. Figini e Pollini  lavoravano sulla leggerezza  ed  il loro razionalismo è etereo, in Terragni era preminente l’uso della materia. C’è da dire anche che  fu un razionalismo tronco: Terragni,  l’unico che l’Europa poteva invidiarci, muore giovanissimo, Pagano muore assassinato a Mauthausen, la stessa sorte capita a Banfi, altri alternarono grandi lavori a cadute repentine portando avanti una continua  mediazione  con un  velato classicismo. Nella lettura per generazioni fatta da Franco Purini  qualche mese fa, a mio avviso,   è la prima generazione, che non riesce a  mantenere una visione internazionale del fare architettura ed opera una  scelta  che seppur autonoma, isola  l’Italia e pone le basi per una crisi che solo  successivamente   diventerà evidente.  Altro punto critico per l’architettura italiana  fu quello di  condividere quasi totalmente le tesi postmoderniste, gli architetti che non lavoravano  all’interno di quelle ipotesi  erano una sorta di  emarginati  che non avevano alcun peso nei centri di produzione culturale. Questo è un fatto estremamente negativo perché  se da un lato l’Italia  entra pienamente nei dibattiti internazionali, anzi per alcuni versi diventa  il centro planetario, dall’altro per il fatto che aveva  legato il proprio futuro unicamente a quelle ipotesi e  per  due decenni, decisivi,  non vi è stato alcun dibattito ha posto  il nostro paese in una condizione di estremo disagio. Bisogna dar merito a Bruno Zevi di avere presagito immediatamente la  disfatta postmodernista  e di essere rimasto, seppur isolato insieme ad un piccolo gruppo di persone, fedele alle tesi di una modernità saldamente legata alla storia. L’equilibrio fu inizialmente rotto dalla mostra al  MOMA nel ’88  non perché  quella mostra ebbe in Italia  un peso culturale ma perché  sposta il baricentro internazionale  verso altri linguaggi e pone il nostro paese in una condizione di isolamento.  Si riproponevano le antiche  ed irrisolte questioni di identità relative alla prima generazione successiva a quella del M.M. E’ questo il motivo, a mio avviso, per il quale  non può esserci  una architettura italiana  intesa come  appartenenza  ad una lingua ed ancora meno come  mediazione  con la storia, perché  non è possibile dire che l’Italia è un paese particolare, dove basta varcare l’uscio di casa per avere un contatto continuo con la storia e da questo contatto l’architetto deve porsi in una condizione di subalternità culturale.  E’ anche certo che una omologazione  planetaria non è possibile. Sono  proprio i linguaggi della modernità a far si che non sia possibile per il semplice fatto che è la modernità stessa  a rifiutare la omologazione perché  elemento costitutivo sono le crisi dei valori consolidati e  le contraddizioni. Ritornando alle generazioni della lettura puriniana penso che  siano le ultime due  generazioni quelle più esposte ai rischi di una omologazione: disincantati, privi dei valori  stabili, guardano  Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Peter Eisenman  ma non indagano come questi si sono formati, per il semplice fatto che le generazioni che le hanno precedute, loro insegnanti, non avevano assimilato, introitato, digerito  i valori della modernità di riferimento di quelle figure internazionali, con il rischio di venire usati proprio da quei  mezzi elettronici  che la tecnica mette oggi  a loro disposizione.

Esiste oggi la reale opportunità di fare gruppo oggi? Penso sia alle continue sollecitazioni di Luca Cordero di Montezemolo e di Confindustria a “fare squadra” sia alla possibilità di costruire un sistema diciamo per capirci “di avanguardia”, ovvero di gente che si sostiene vicendevolmente su alcuni grandi temi.

Non credo molto nel gruppo, e se fare gruppo significa poi  protezionismo diventa una sciagura perché sottintende  posizioni  isolazioniste.

Questo tema mi interessa molto perché il modello del così detto Star system parerebbe incoraggiare la creazione di singole individualità. Se analizziamo con attenzione le pratiche di comunicazione vediamo come nell’attuale contesto appaia premiante costruire una posizione visibile autonoma, lavorare con dei distinguo, dei “io sono diverso da tutti” anche se poi molte soluzioni architettoniche si assomigliano. Anzi forse più tutti si assomigliano, come avviene in questi ultimi anni, più i singoli architetti vogliono affermare la propria singola posizione. È un fenomeno interessante perché nega completamente l’appartenenza di elite su cui si è fondato tutto il mito delle avanguardie del Novecento. È un grosso problema anche filosofico in fondo – benché io non ami molto quando gli architetti parlano di filosofia o che citano filosofi – un architetto e saggista molto interessante come Yona Friedman vede come unica possibilità di comunicare nella nostra società quello di farlo al proprio “gruppo critico”, per sottoinsiemi che si capiscono, per avanguardie se vogliamo forzare la mano a Friedman e parlare con termini che gli architetti capiscono meglio. È un cane che si morde la coda e che mostra secondo me il cortocircuito della attuale comunicazione che mi pare produrre architettura sempre più banale. Quello che mi interessa del discorso sulla comunicazione non è tanto il prodotto dell’architettura contemporanea, che da un lato in questi anni è interessante e ricco di spunti, ma di come questo approccio finisca per omologare gli architetti e, in ultima analisi, per dequalificarli. Se il punto è essere sulla cresta dell’onda mediatica allora ci sono immediatamente altre figure professionali che possono essere poi competenti. Non a caso Giorgio Armani si è messo a disegnare mobili e moltissimi designer puri oramai fanno più metri cubi di tantissimi architetti. Più gli architetti si occupano di rivestimenti e comunicazione e più vengono intercettati da altre figure, tanto più che il disegno esecutivo e la cantierizzazione viene sempre più appaltato altrove.

L’architettura come atto creativo deve essere necessariamente  qualcosa di individuale. Non si tratta però della figura dell’architetto demiurgo che ritengo ormai spazzata via, ne si tratta del processo formativo dell’opera d’arte, esposto da Brandi,  tra costituzione dell’oggetto e formulazione dell’immagine, si  tratta  specificatamente dei processi di creazione dello spazio che non possono che riguardare l’individualità. Personalmente amo avere con l’architettura un approccio artigianale. E’ la logica  del gruppo che porta ad una omologazione perché il gruppo deve necessariamente  agire attraverso  un catalogo di ipotesi e soluzioni. E questo penso sia riduttivo. Altra cosa è invece l’apporto che  il singolo  specialista   può dare al lavoro. Ritengo  questo indispensabile oltre che produttivo per la specificità e complessità delle problematiche  che interagiscono oggi  in una realizzazione architettonica. Non è un caso che  molti architetti  superano  la fase  che potremmo definire sostanzialmente privata per  interessarsi solo  degli aspetti comunicativi, cioè di qualcosa che non ha materialità. Ed ha ragione lei nell’ affermare  che la comunicazione la fa  molto meglio il designer. E’ proprio in tal modo  che l’architetto viene  surclassato da altre figure.

Le confesso che l’aspetto che più mi ha colpito all’inizio del suo lavoro e che mi ha portato ad accettare di studiare meglio la sua opera per fare questo libro è quello che chiamerei un “grande senso della possibilità” che esce dalla sua opera. Lei dimostra molto bene come sia possibile operare nel nostro contesto facendo scelte apparentemente più complesse e questo mi colpisce sempre, mi pare un segnale positivo da dare al dibattito del nostro Paese in un momento in cui sentiamo molti lamenti levarsi dalle bocche degli architetti.

Penso si tratti  di sfruttare al meglio le possibilità e le opportunità  che si creano, senza remore e timori, anche da una piccolissima cosa  ne può scaturire un grande opportunità.

 Mi vuole parlare dei suoi rapporti con la committenza privata? Sia raccontando magari dei casi specifici, sia facendo un punto della situazione a partire dalla sua esperienza diretta.

La committenza privata  chiede all’ architetto quasi esclusivamente case. La casa rappresenta la sfera privata dell’individuo,  una sorta di microcosmo all’interno del quale ognuno scarica le proprie  ansie sociali  e concretizza nello  spazio abitativo i  personali modi di rapportarsi alla società. Lo spazio casa rappresenta così  un piccolo universo privato da contrapporre all’universo  pubblico con un fascino sempre presente. Un fascino che  ha fornito l’occasione dei più grossi trionfi dell’architettura moderna, si pensi alla Fallingwater  oppure alla Ville Savoye ed all’enorme peso che  queste opere hanno esercitato nei  confronti di generazioni di architetti. Ed il privato quasi sempre ha una immagine precisa dello spazio della sua casa.  L’architetto deve operare in tal senso  una mediazione tra le esigenze della committenza,cioè lo spazio che la committenza privata immagina per soddisfare le proprie aspettative e l’idea di spazio di ognuno di noi . Non è cosa semplice. La committenza pubblica, viceversa, non ha mai le idee molto chiare, e per quanto riguarda i linguaggi  lascia molta libertà.

 Che rapporto ha con i collaboratori interni? Chi viene a lavorare da lei e con quali prospettive o interessi? Glielo chiedo perché in questi ultimi dieci anni si è formata una nuova generazione di architetti che si sposta molto da uno studio all’altro anche all’estero e credo che il rapporto con questa generazione sia potenzialmente diverso che con quella precedente. Su questo mi piacerebbe poter fare una verifica di una mia idea. Ho la fortuna di insegnare e in questi anni ho girato diverse facoltà in Italia e all’estero e mi sono accorto che mentre all’estero quel processo di internazionalizzazione per cui esiste molta mobilità dei giovani negli studi sta continuando ed è una caratteristica inevitabile della globalizzazione, in Italia la generazione che si sta laureando adesso è piuttosto conservatrice o per lo meno impaurita dal confronto e cerca molto di più un lavoro che di perseguire i propri sogni e le proprie ambizioni.  Siccome non credo che la mia generazione, diciamo quelli che i trent’anni li hanno superati, sia stata particolarmente utopista, ma anzi abbia metabolizzato il cinismo con grande determinazione, io vedo questo fenomeno con un certo timore. Shakespeare diceva che gli uomini sono fatti della sostanza di cui sono fatti i loro sogni e io vedo pochissima gente sognare. Lei che impressione ha delle generazioni più giovani?

La mia impressione sui giovani? Timore, paura, mancanza di prospettive, lei li chiama sogni. Purtroppo i giovani oggi non sono molto motivati. Il mio studio ha una dimensione artigianale, mi piace il controllo. Ricordo  che durante un incontro in cui si parlava di Carlo Scarpa intervenne Ludovico Quadroni : lamentava, anche con se stesso,   il fatto che  molti progetti  negli studi professionali dopo una  veloce ed approssimata spiegazione venivano demandati ad una spicciola  manovalanza, l’architetto esautorava se stesso  dai processi di controllo. Spiegava che  nello studio di  Carlo Scarpa, per  l’approccio che l’architetto aveva  nei confronti del progetto  derivante da una educazione di marca viennese, questo non avveniva  mai.

Visto che siamo in argomento mi farebbe piacere se volesse parlare del suo rapporto con le scuole di architettura di oggi. Come le vede un professionista e come le vede l’architetto che porta avanti una sua ricerca con la determinazione con cui lo fa lei?

Ho pochissimi contatti con le università. Se dovessi analizzare in due righe la situazione italiana direi che  esiste un livellamento qualitativo  generale  e le sedi sono ormai quasi provincializzate, non vi è competizione,  ed un docente nasce e muore nella stessa sede. Tutto ciò è negativo. La mia idea? Il ’90% di contratti a termine ed un vorticoso giro di insegnanti. Come avviene nel mondo del calcio.

 Quale è, secondo lei, il suo progetto più riuscito e perché?

Fra tutti preferisco quella che verrà, ogni mio lavoro, sia per deficienze imputabili al mio operato che a quello realizzativo,  mi  ha deluso, certamente non lo farei  nello stesso modo.

E qualche incarico che non avrebbe dovuto accettare? Lo dico perché secondo me oggi, soprattutto i più giovani, hanno pochissimi punti di riferimento nell’approccio con il mestiere e credo sia importante sentire la voce dei professionisti.

Non esiste un incarico che  non si deve accettare. E’ importante però non scendere a compromessi compromettenti.

Come inizia lei un progetto?

Inizio un progetto pensando molto. Solo più tardi comincio a disegnare, ma sono solo sogni. Si racconta  che Mies prima  di iniziare un progetto  si recava sull’ area e  stava  lì seduto,  su uno sgabellino  che portava dietro,  per qualche giorno. Forse è meglio il suo metodo!

I suoi progetti hanno un rapporto sempre complesso tra interno ed esterno, uno dei grandi temi della contemporaneità. Mi piacerebbe che lei parlasse di questo aspetto della progettazione.  In generale quale è per lei il rapporto tra l’architettura e lo spazio che essa genera. Mi pare che la concezione spaziale del progetto sia una delle sue preoccupazioni primarie e quindi sia molto interessante avere una sua riflessione su questo, anche in virtù del fatto che troppo spesso questo aspetto è poco considerato in Italia.

La soluzione di continuità tra interno ed esterno è uno dei temi  dominanti della modernità, ugualmente è stato uno dei temi  più indagati.  Risulta un tema superfluo solo quando  l’architettura si pone nella condizione di  staticità  visiva, mi riferisco  ad una certa architettura disegnata. I grandi capolavori della storia  lavorano sulle tematiche  della integrazione tra interno ed esterno: Michelangiolo nell’abside del Tempio Vaticano  forse realizza un interno nell’esterno e viceversa,  lo stesso Leonardo  cerca di dare risposte scientifiche al tema  quando studia  il negativo: l’architettura  come “un togliere” da una entità molto più vasta.  Indagine esaustiva nell’ opera di F.L. Wright. Indubbiamente è un aspetto che mi interessa molto.

Come lei sa mi sono occupato a lungo dell’opera di Bernard Tschumi che teorizza con grande attenzione il primato dell’ Evento rispetto alla mera spazialità dell’opera. Non c’è architettura senza evento, senza che essa sia esperita dice lui. Come si pone rispetto a questo lei?

Nessuna architettura può essere interpretata  in termini  moderni  senza studiare le dinamiche che si svolgono all’ interno  della stessa.  Una certa scuola rinascimentale  progettava l’edificio partendo dal prospetto, elaborando una teoria  compositiva unicamente finalizzata  al Disegno del prospetto. Ciò che si svolgeva al di la del prospetto diventava  un fatto accessorio.  Il postmodernismo ha fatto qualcosa di simile:  l’evento che si svolgeva all’ interno  dell’architettura diventava una cosa  non necessaria per il  fatto che era proprio  l’architettura  che   si doveva piegare al segno ed alla volontà di comporre  con volumi iconici.

Che rapporto hanno i fruitori delle sue opere?

Nel bene e nel male i miei progetti fanno discutere. Un ricordo sulla sistemazione dell’area archeologica di Piazza Toscano  a Cosenza:   ad un certo punto sono apparse delle scritte che  invitavano a suicidarmi. Avevo, secondo loro, violentato la storia. Naturalmente non ho seguito il consiglio.

Per molti architetti (vedi il giovane Eisenman) chi vive nelle proprie opere è una sorta di intruso che contamina con le proprie scelte progettuali. Lei come reputa questo e che effetto le fa vedere le sue opere vissute da altre persone che fanno scelte diverse dal suo progetto. 

Penso che l’architetto  deve mettere la propria conoscenza a disposizione della collettività. Il resto sono puri intellettualismi.

Per chiudere, che opera sogna di realizzare?

Una grande cattedrale. Come le  grandi cattedrali gotiche.