Cesare De Sessa
MARCELLO GUIDO: L’IMPEGNO NELLA TRASGRESSIONE
La ricerca linguistica di Guido, svolta per deroghe, scatti e trasgressioni, risale agli anni universitari. Già da allora risultava delineata, almeno nei suoi aspetti più evidenti, anche se ha registrato nel corso degli anni, come è giusto sia, una fisiologica maturazione, uno sviluppo e approfondimento derivante dalla pratica, fattore sempre determinante per il mestiere di architetto. La frequentazione del cantiere, lungi dal far recedere il progettista sui facili schemi del conformismo linguistico, più dannoso di un invasione di cavallette, lo ha stimolato a verificare la fattibilità, le reali possibilità operative di un approccio progettuale indelebilmente segnato da inquietudine intellettuale, che trasferendosi in architettura si mutava in rigetto dei linguaggi più regolari e normativi, per ricercare e indagare le possibili evoluzioni di quegli etimi ed espressioni capaci di sintonizzarsi sull’ansia di dissonanze proprie dell’architetto.
Correvano gli anni 1976/77, se la memoria non mi tradisce, quando Guido elaborava, relatore Bruno Zevi, la sua tesi di laurea. Un progetto di recupero dell’ex mattatoio di Testaccio, a Roma. Le copertine patinate delle riviste, nazionali e internazionali, non avevano ancora celebrato i fasti, sicuramente meritati, dei maestri del Decostruttivismo.
Anzi, si profilava nell’immediato futuro del dibattito architettonico, uno storicismo a parole liberatorio, nei fatti, invece, inibitorio. Anni in cui, pervertendo il concetto di memoria (che è bene ricordarlo, non può mai essere pedissequa riproposizione di modelli del patrimonio linguistico e formale elaborato dalla storia, ma sempre creativa rivisitazione, contaminazione e reinvenzione dello stesso), si dava la stura a una produzione cui sarebbe improprio attribuire il termine di architettura dequalificata. Si è trattato piuttosto di melliflua simulazione, di voluta, perché assai ben vendibile, mistificazione, spacciando per architettura vuote scenografie, tautologie in cartapesta, alle quali, se si fosse mutata la “pelle”, nulla avrebbero tolto o aggiunto allo loro insipienza spaziale.
E ciò conferma quanto detto, ossia: non si trattava di architettura, disciplina che, invece, si distingue dalle altre arti visive proprio per la modellazione degli invasi, per l’invenzione spaziale.
Correvano dunque gli anni 76/77, quando Guido, facendo il punto sul suo excursus universitario, elaborava per la tesi di laurea il dirompente intervento sul mattatoio. Un occhio rivolto all’atteggiamento ribelle e dissacratore del Dadaismo, l’altro alle valenze esplosive dell’Espressionismo, alla capacità dello stesso di dissolvere la scatola edilizia unitaria per sostituirla con sequenze di volumi plasticamente intensi e dissonanti, il giovane laureando redigeva un coacervo di linee in obliquo, angoli acuti, diagonali, un intersecarsi di rampe e percorsi. Il progetto, che profanava la statica spazialità dei capannoni che compongono il manufatto, pur lasciandone leggibile l’originaria conformazione, sostituiva l’allucinata fissità degli interni con vivificanti ipotesi di episodi spaziali. Certo, l’intervento presentava alcuni aspetti immaturi, né poteva essere altrimenti, l’infatuazione del laureando per Lautremont, l’ansia di essere quanto più possibile “blasfemo”, l’irriverenza verso il manufatto assunta come bandiera, la determinazione a “urlare” gli inserti dissonanti, piuttosto che farli “dialogare” con la preesistenza, determinavano una sorta di enfasi linguistica. Ma si trattava appunto di una tesi di laurea, fatta da un ragazzo poco più che ventenne, in anni, è bene ricordarlo, in cui il movimento studentesco consumava le sue ultime fiammate. Uno studio che, se paragonato agli insipidi, squadrettati cubicoli, di cui troppo spesso si fa mostra nelle sedute di laurea, davvero indicava una ben diversa dimensione spirituale ed intellettuale, insomma un altro pianeta. Di quel progetto, acerbo e generoso, oggi conta solo il fatto che esso conteneva, già delineate, le direttrici poetiche, maturate ed espresse dall’architetto nel corso della sua attività.
Il primo riscontro ottenuto da Guido, arriva in occasione di un concorso indetto dalla facoltà di Architettura di Roma: “Spazio-tempo einsteiniano e processo architettonico”. Un tema non semplice, sia per la scarsa conoscenza tra gli architetti del pensiero del grande fisico e dei suoi risvolti filosofici, sia per l’oggettiva difficoltà di tradurre in elaborati grafici, che fossero comunque invenzione e/o allusione di invasi spaziali, in grado di registrare la profonda svolta impressa al mondo scientifico dalla teoria della relatività. Il concorso prevedeva la partecipazione di architetti e studenti, divisi in due diverse categorie. Per gli architetti furono qualificati primi, ex-equo, due nomi di levatura internazionale, Reima Pietilà e Luigi Pellegrin; Guido, a pari merito con altri, fu classificato secondo. Il progetto, una sorta di assemblaggio di forme in parte espanse in parte esplose, sovrapponeva, contaminandole reciprocamente, planimetrie e sezioni, ad indicare come un continuum spazio/temporale, debba necessariamente ripensare, dalla radice, gli stessi strumenti grafici della progettazione. In seguito al concorso, la rivista L’architettura cronache e storia, pubblicò i progetti vincitori, organizzando altresì una tavola rotonda sull’evento.
Nel dibattito, Sergio Musmeci, in merito a questo progetto di Guido affermava: “Anch’esso a prima vista può sembrare limitato da una impostazione soprattutto in pianta; ma se lo guardate bene vedrete che ci sono delle sezioni sovrapposte alla pianta e ribaltate; che è la parte più interessante. Il progetto allude chiaramente ad una ricchezza spaziale basata soprattutto, diciamo, su una specie di esplosione dello spazio classico, con frammenti che vengono lanciati…(…) Soprattutto propone di immaginare, di viverci dentro, a questi spazi; vivendoci non si potrebbe sottrarsi a una concezione dello spazio che si accosta ad un tipo relativistico. Non vi sono centri, né punti privilegiati, né piani privilegiati, né direzioni privilegiate. Il valore del progetto sta nell’assunzione chiara di alcuni fatti riconducibili alla relatività. Forse è difficile tirarne una somma; forse, da questo punto di vista prevale una forza compositiva diciamo tipica della mano di questo architetto, al di là della rappresentazione dello spazio. Qui è rappresentato lo spazio einsteiniano e insieme una sua poetica che vi si sovrappone; che, forse, è un pregio.”1
Ho voluto riportare integralmente il commento di Musmeci, in quanto, con la sensibilità umana e intellettuale che lo distingueva, seppe cogliere, pur non conoscendolo, come il giovane architetto avesse fin da allora un suo stile, una propria poetica, magari ancora acerba, ma definita al punto da poterlo già caratterizzare. Fatto, questo, che non necessariamente deve rappresentare una qualità, un punto di forza, può anzi ribaltarsi in pastoia, freno, prigione intellettuale, relegando l’architetto in espressioni tautologiche, dove si rischia, soddisfatti dei risultati raggiunti, di fare il verso a se stessi, svuotando e isterilendo ricerche e approcci progettuali validi e stimolanti. Né in tal senso mancano esempi, anche di nomi con risonanza nazionale o internazionale. A questo rischio di inaridimento, per quanto sino ad oggi prodotto, è immune il lavoro di Guido. E’ sempre problematico e “pericoloso” tracciare bilanci definitivi, pronunciare valutazioni/verdetto, impossibile nel caso in cui la personalità analizzata è nel pieno della sua stagione creativa. Per tale motivo il racconto critico sviluppato in queste pagine è, volutamente e programmaticamente, “approssimativo”, indeterminato. Si tratta infatti non di definire un rendiconto, ma capire implicazioni e matrici (linguistiche e culturali) che giocano, in un approccio progettuale rivolto a una decisa liberazione linguistica, un ruolo determinante.
Si tratta di un lavoro ispirato a quei concetti di opera aperta, illustrati da Eco con acutezza e incisività di argomentazioni nell’omonimo, famoso libro. Per far ciò l’architetto mette, nel momento ideativo, momentaneamente tra parentesi un principio, talvolta dogma, dell’architettura: la funzione. Memore, forse, della pungente ironia del Gadda: “Poiché tutto, tutto! era passato pel capo degli architetti pastrufaziani,(…) E ora vi stava lavorando il funzionale novecento, con le sue funzionalissime scale a rompigamba, (…) Coi cessi da non poterci capire se non incastrati, tanto razionali erano (…)”2 Sia comunque chiaro, al di là del gaddiano sarcasmo, l’aspetto funzionale non è ignorato. Piuttosto, il progettista toglie a esso l’aurea di “regalità”, il ruolo prioritario ed egemone spesso attribuitogli. Insomma, cessa la “mitizzazione” costruita intorno alla funzione, non di rado mutatasi poi in alibi per gli architetti non creativi, i quali, poveri di un reale vocabolario espressivo, hanno perpetrato un disseccamento linguistico (frutto più di insipienza che di scelta), progettando e/o realizzando edifici ove l’unica dominante era, appunto, quella funzionale.
Nel lavoro di Guido la funzione “non precede, né segue la forma”, essa è solo uno tra i fattori e/o elementi che, pariteticamente con altri, concorre a determinare e configurare il progetto, l’opera. Detto altrimenti, l’architetto è consapevole come la medesima funzione può essere risolta in più modi, può cioè essere svolta con varie forme e/o soluzioni.
Anzi, quanto più gli altri fattori (complessità linguistica, sapienza nella scelta e accostamento dei materiali, attenzione -che non significa necessariamente assonanza- al contesto, espressività plastica e volumetrica del manufatto, adattabilità e reversibilità degli invasi, ecc.) incideranno nella configurazione dell’opera, determinando così una modellazione dello spazio, tanto meglio risulterà risolto l’aspetto funzionale. Discorso questo, peraltro, non inedito, in merito Cappabianca scrive: “Crediamo che manchi, soprattutto, la dimensione dell’immaginario. Sempre più oltre al funzionale, allo strutturale al distributivo ecc., è necessario per lo spessore del discorso spaziale, l’aggancio alla simbologia profonda del vissuto, alle radici nascoste del desiderio: (…) Non è tanto la Storia che qui può venirci incontro, quanto l’Archeologia della Storia, gli strati profondi, ma non per questo meno vitali, della memoria collettiva, i grandi fantasmi dell’immaginario e delle pulsioni della specie.”3
Il ripensare la funzione, svolgendola come uno dei fattori che concorre, pariteticamente con altri, alla modellazione dello spazio, produce opere che sono un sovrapporsi di volumi interrotti, forme violentate sì da allontanare ogni idea di purezza e compiutezza, assemblaggi di superfici disarticolate. In sintesi, manufatti irregolari, improntati ad una successione di eventi plastici, ove è azzerata ogni visione di continuità formale (per privilegiare, di contro, un continuum spazio temporale degli invasi), in cui si esalta un’estetica del parziale, di parti tra loro diverse poste in successione e dialetticamente connesse. Concetto importante per la cultura moderna il superamento della regolarità plastico/formale, l’azzeramento di concezioni improntate alla continuità. Eco in merito scrive: “La discontinuità è, nelle scienze come nei rapporti comuni, la categoria del nostro tempo: la cultura occidentale moderna ha definitivamente distrutto i concetti classici di continuità, di legge universale, di rapporto causale, di prevedibilità dei fenomeni: ha insomma rinunciato ad elaborare formule generali che pretendano di definire il complesso del mondo in termini semplici e definitivi. Nuove categorie hanno fatto il loro ingresso nel linguaggio contemporaneo: ambiguità, insicurezza, possibilità, probabilità.”4
E ancora, se è vero, come credo, che: “la forma è il pensiero”5 le deflagrazioni plastiche, la decisa violazione dei volumi, l’assemblaggio libero di parti tra loro diverse, sempre più risolutamente cifre qualificanti le opere dell’architetto, ciò indica un pensiero che si interroga. “In un epoca in cui non esistono certezze, in cui nulla è più garantito –sembra chiedersi il progettista-, come posso, da architetto, sintonizzarmi su tale alcatorietà? Non potendo l’architettura prescindere da una volontà realizzativa, da un discorso operativo che comunque deve e vuole approdare a un manufatto, come dovrò concepire tale prodotto affinché non solo registri il senso dei tempi, ma sia altresì immagine esplicativa dell’indeterminatezza che, sempre più, contrassegna e domina questo scorcio di millennio?
In realtà Guido non dà, né potrebbe dare, risposte univoche, certe. Indica, piuttosto, una strategia intellettuale, un approccio progettuale eterodosso. Ossia un superamento della visione cartesiana dello spazio, che prevedeva il controllo dello stesso, sicché veniva concepito come dimensione misurata e sorvegliata, invasi in grado di comunicare, ai corpi e alle menti che in essi vivevano e con esso interagivano, un senso di gerarchia e disciplina. Un concetto di spazio non più dunque calibrato, proporzionato, fautore di una dimensione di equilibrio, rigore e stabilità, bensì invasi in cui può fare irruzione la soggettività di ciascuno, ogni volta diversa e particolare, invasi indefiniti pur se fortemente caratterizzati. Un’architettura intesa insomma non come luogo di similitudine e uniformazione, ma dimensione per la vita, dunque ricca dell’imprevedibilità in cui la stessa si articola e svolge. E per ottenere ciò, il meno da fare, secondo il progettista, è smantellare senza mezzi termini ogni convenzione linguistica oppressiva, azzerare con decisione ogni idea di astratta purezza, per immettere nell’opera elementi perturbanti.
E’ noto, “la lingua ci parla” come, con apparente paradosso, affermano i linguisti. Intendendo come spesso l’uso del linguaggio risulta condizionato, “predeterminato”, al punto che ci troviamo, senza neppure avvedercene, a comunicare con frasi fatte, con espressioni scontate, sicché, pur avendo elaborato un’idea innovativa, lo strumento comunicativo, se inadeguato, rischia di non riuscire ad esprimere compiutamente la forza del nuovo concetto, la sua carica dirompente. Bisogna allora, in qualche modo, forzare il linguaggio, violentarne i limiti, spostarsi ininterrottamente lungo i suoi bordi, senza timore di risultare “sgrammaticati” e/o “ineleganti”. Discorso, questo, lungo e complesso. Sintetizzando, i teorici dell’informazione spiegano come i linguaggi siano un’insieme di regole e norme, che stabiliscono un ordine, attraverso il quale è possibile articolare un discorso, dunque comunicare. Tuttavia, ricorda Eco, “…quell’ordine che regola la comprensibilità di un messaggio, ne fonda anche l’assoluta prevedibilità, in altre parole, la banalità. Quanto più è ordinato e comprensibile, tanto più un messaggio è prevedibile…”6.
Vedendo i disegni di Guido, e mi riferisco non a quelli tecnici, bensì a quelli da lui usati come strumento di ricerca plastico/spaziale, evidente mi sembra la volontà di far esplodere la bidimensionalità cui gli stessi sono connessi, sospingendoli oltre i limiti naturali, al di là delle loro possibilità, verso il “non rappresentabile”, o almeno verso ciò che non è raffigurabile secondo l’uso corrente del linguaggio grafico. Vi si legge una determinazione a contaminare e rendere simultanei planimetrie e alzati; a far diventare “successive” piante che descrivono corpi di fabbrica diversi, quasi come se le stesse non fossero disegno ma opera realizzata, sicché si potesse transitare fisicamente da uno spazio all’altro.
E ancora, affiorano qui e là, in questi elaborati, delle intenzioni di dettaglio, come a dare un’idea delle suggestioni e degli stimoli che, una volta realizzata, quell’opera può suscitare nei futuri fruitori. In questo uso inconsueto, meglio, difforme del linguaggio grafico, credo possa leggersi: 1) la consapevolezza di dover intervenire sugli stessi strumenti espressivi dell’architetto, onde far si che il linguaggio già nella fase ideativa, in cui appunto usa i mezzi grafici, possa, emancipandosi dai suoi limiti, più facilmente comunicare la volontà liberatoria cui l’architetto mira. 2) Aumentando il livello di entropia del primo elaborato grafico, degli schizzi che in qualche modo daranno l’imprinting all’opera, l’architetto, delineando l’idea cui il progetto, in linea di massima, si conformerà, non si preclude la possibilità di far sì che lo stesso sia una sorta di worl< in progress, ed in quanto tale pronto a cambiare, evolversi nel corso delle successive stesure, predisposto insomma a farsi carico degli stimoli, indicazioni, esigenze, suggerimenti che possono venire tanto dall’esterno quanto da ulteriori riflessioni dello stesso progettista.
Tuttavia a Guido non bastano, per formulare le agglutinazioni di forme plasticamente eterodosse delle sue realizzazioni, l’affastellare di segni, le contaminazioni e ibridazioni svolte nei disegni, portando verso il limite le possibilità/capacità dello strumento grafico. Conquistato dal proprio mestiere, è consapevole che quando più riuscirà a sperimentare, nel corso dell’iter progettuale, le potenzialità espressive dello spazio, tanto più significativi risulteranno le opere realizzate. Ricorre all’uso dei plastici, mai bei modelli da esibire al committente, ma “piccoli cantieri sperimentali”, una sorta di “taccuini di appunti”, sui quali il progettista annota e verifica nella terza dimensione, per aggiunte, sottrazioni e spostamenti, come la sua idea di spazio possa essere espressa al meglio, comunicata nel modo più incisivo. Senza adottare un linguaggio netto e univoco, e anzi facendo leva sui margini di ambiguità propri di ogni linguaggio, (tanto che non pochi dei suoi modelli, spiazzando e scombussolando l’osservatore, sembrano oggetti a metà strada tra intenzioni di architettura e piccole forme scultoree, liberamente assemblate), verifica con pazienza quasi artigianale come rendere non definitivo né circoscrivibile, mai del tutto chiaro e comprensibile il prodotto del suo lavoro. Se, come preconizzava Foucault, “il linguaggio è ormai destinato a proliferare senza origine né termine né promessa”7, in questa insicurezza, nell’assenza di una parola che possa ergersi come certa e definitiva, in tale mancanza di compiutezza, ormai peraltro anacronistica e impraticabile, l’architetto intende lasciare delle tracce, non per rifondare un linguaggio architettonico che possa tornare ad essere onnicomprensivo. Piuttosto, come il bambino della storia che, abbandonato nel bosco dal genitore indigente (e pure cinico), dissemina il percorso di sassolini onde riuscire a ritrovare la strada, l’architetto pone delle indicazioni, segna dei decisi punti di riferimento, lascia delle tracce, peraltro forti, (che nascono poi dalla personale selezione da lui svolta sul patrimonio formale e linguistico del M.M.). Nel percorso svolto per seguire e spostarsi dall’uno all’altro segno, egli rappresenta il suo, personale cammino di architetto. Sicché, analogamente al bambino della storia, anche il progettista riesce a ritrovare “la via di casa”, con la differenza, però, che nel momento in cui arriva alla “casa paterna”, o almeno a quella immaginata tale, si accorge che “i padri” sono deceduti o partiti da tempo, né ce ne sono di putativi. Per cui, dinanzi la “casa” ormai abbandonata, non resta che rimettersi in cammino, consapevole che non c’è più nessun luogo definitivo ove il vagabondare della lingua, e il progettista con essa, possa trovare ricetto, mettere radici. Ma proprio in questo nuovo nomadismo privo di parole/statuto, senza ricette forti, egemoni, sembra affermare Guido attraverso la sua opera, il linguaggio potrà ritrovare il gusto di una sperimentazione disinibita, il coraggio di rifiutare i luoghi comuni, per comunicare, o almeno provare a farlo, attraverso immagini dissonanti, recuperando così la possibilità di un’inedita, insperata pienezza semantica.
Quando ricevetti le foto della Caserma dei Carabinieri a S. Demetrio Corone (CS) e del Municipio a S. Giorgio Albanese (CS), si era verso la fine del 1987, provai un moto di esultanza e per due motivi. Guido mi aveva parlato di queste opere, ma di esse non avevo visto nulla, neppure uno schizzo. Per dirla tutta, temevo che il progettista, con moglie e figlio a carico, si fosse come tanti piegato alle necessità della “pagnotta e companatico”, scivolando, pur di lavorare, nell’edilizia più banale e corrente. Il mio timore nasceva, va da sé, non perché dubitassi delle capacità dell’architetto, ma conoscendo, da calabrese, le limitazioni economiche e socioculturali dell’area in cui opera, mi sembrava oltremodo difficile che riuscisse a trovare un committente in grado di apprezzare il suo estroverso vocabolario al punto da permettergli di usarlo operativamente. Invece, la freschezza di quelle immagini, la loro intensità espressiva, testimoniavano il contrario. Non solo, i due progetti erano stati elaborati il 1985 la Caserma e il 1986 il Municipio, dunque proprio negli anni in cui le decrepite scenografie postmoderne occupavano parte del dibattito architettonico. Ebbene, in quelle immagini delle opere di Guido non solo non c’era alcun cedimento o ammiccamento alla insipiente moda, ma rappresentavano anzi una secca smentita all’infausto festival di archi, capitelli e colonne. La memoria e la storia, per dirne una, non erano ridotte nelle opere dell’architetto ad una sorta di “catalogo Vostro”, da cui estrapolare a proprio piacimento “merci” culturali e/o linguistiche con le quali camuffare l’impotenza creativa. Erano invece, storia e memoria, ciò che in effetti sono: radici, dalle quali necessariamente devono germogliare nuove piante.
La Caserma, un edificio a tre piani, con le sue facciate vive di tonalità forti e brillanti, rappresenta una chiara riflessione degli etimi De Stijl, depurati dagli aspetti più illuministici e rielaborati con spirito espressionista, come dimostrano le planimetrie, ove, azzerato l’uso
dell’angolo retto, si privilegia uno sviluppo di diagonali che esalta una percezione in obliquo del manufatto. Superato il concetto del “prospetto principale”, anche se ancora non siamo alle più magmatiche opere dell’architetto, ove la stessa idea di facciata lascia il posto a quella di “epidermide” dell’edificio, o se si vuole di sequenza, abbiamo in quest’opera delle facciate paritetiche e intimamente connesse l’un l’altra. Sicché l’una rinvia immediatamente a quella successiva e nessuna e pienamente leggibile e comprensibile in sé, se non viene messa prima in relazione alle altre. Attento il trattamento della pavimentazione esterna, dove con una diversificazione dei materiali usati e con un tratto che riprende, ribaltandolo fuori, il libero segno delle planimetrie, il progettista configura una volontà dialettica tra le due dimensioni, dichiarando così che l’edificio, pur nella sua diversità rispetto al contesto, non è chiuso allo stesso, né vuole ergersi a piccola
“cattedrale nel deserto”, ma pronto a divenire brano qualificato e qualificante del territorio. Limite del manufatto, il mancato sfalsamento dei livelli, che avrebbe dinamizzato ancor più l’edificio e un trattamento delle facciate, in cui si fosse accentuato il gioco pieno/vuoto, magari attraverso più ampie aperture, o ancor meglio un avanzamento e/o arretramento delle lastre murarie. Ma ricordando che si tratta di una caserma, oltre che una sorta di opera prima, gli esiti confermano le premesse formulate con la tesi di laurea e con il concorso “Spaziotempo einsteiniano e processo architettonico”.
Successivo di un anno, pur nelle sue dimensioni ridotte, il municipio di S. Giorgio Albanese che sorge nel centro storico del piccolo centro, evidenzia già una scrittura architettonica più calibrata e matura. I segni si riducono, mirano ad un’intensità espressiva. Le facciate si aprono, vengono svuotate, tratti in obliquo ripropongono anche in alzato la libertà formale dell’impianto planimetrico. Il dilatarsi delle aperture e il più accurato trattamento dei tratti murari, enfatizzano, da un lato, la contrapposizione vuoto pieno, dall’altro stabiliscono un più profondo dialogo con il contesto, un dialogo costituito non da vuote assonanze, ma parlando l’opera, con onestà intellettuale, un linguaggio schiettamente moderno, svolge con il contesto un rapporto che non è neppure di antitesi, bensì improntata a una volontà di riqualificare lo stesso alla luce di una coscienza figurativa contemporanea.
Guardando le immagini delle opere e dei progetti di Guido, e ancor più visitando le sue realizzazioni, la caratteristica che immediatamente colpisce è la determinazione con cui egli scompone e disarticola gli spazi, violenta i volumi, frantuma le superfici, riassemblando quindi gli elementi del comporre architettonico in sequenze apparentemente casuali, in realtà verificate attentamente al tavolo da disegno e nei plastici di studio. Colpisce e, lo dico per inciso, personalmente incuriosisce, il fatto che egli attui tale radicale lavoro linguistico senza usare tecnologie particolarmente avanzate e/o complesse, bensì adottando consuete strutture in cis. armato e comuni tamponature in muratura. Certo, l’ambito in cui opera sicuramente ha il suo peso in tale scelta, tuttavia non basta a spiegare del tutto. Conoscendo la determinazione del personaggio, sono sicuro che se lo avesse deciso, avrebbe trovato il modo di adottare soluzioni tecnologiche più avanzate anche in una regione che sotto questo aspetto lascia a desiderare.
D’altronde, anche da un punto di vista di linguaggio le opere dell’architetto eccedono, diciamo così, le possibilità/capacità del contesto in cui si trova ad operare, tuttavia egli non si è appiattito sulla ordinaria e banale produzione edilizia che perlopiù è prodotta, ma con fermezza è riuscito a portare avanti operativamente una personalissima ricerca, realizzando opere decisamente difformi. Il ritardo tecnologico del contesto è dunque al più solo concausa nella scelta dell’architetto di adottare una tecnologia tradizionale, in tal senso, credo, vi è una precisa volontà del progettista a non misurarsi, almeno sino ad oggi, con tecnologie più avanzate e complesse. E francamente mi sembra un peccato, sono infatti persuaso che l’uso di più tecnologie, magari impiegate contemporaneamente nello stesso manufatto, la loro reciproca contaminazione, così come sapientemente fa con i linguaggi dell’architettura, non potrebbe che esaltare le sicure capacità espressive del progettista, spronarlo a produzioni sempre più ardite ed estroverse.
Nel Centro servizi presso Acri (CS), con più chiarezza si legge come il lavoro di Guido esprima la ricerca di un punto estremo, di “straripamento”, verificare cioè sin dove i linguaggi architettonici possono spingersi, capire sino a che punto è possibile deformarli senza che smarriscano la loro specificità e il loro utile, ossia plasmare spazi. In questa opera è messa in campo con evidenza una violazione del linguaggio, esso non è più un corpus unitario e definito, ma un campo indeterminato di forze ed eventi, atto a sperimentare la sua personale inclinazione alla trasgressione. Un coacervo di inserti estrapolati dal patrimonio plastico/formale del M.M., liberamente reinterpretati, dove con chiarezza e rigore rimane chiaro l’obiettivo disciplinare, ossia configurare spazi dissonanti, pena una gratuita evasione nel multiforme universo figurativo. Nei setti irregolari, nelle spezzate, nelle obliquità, nella radicale dissoluzione della scatola edilizia, nelle discontinuità, nelle spazialità antigeometriche, cifre qualificanti il manufatto, non è difficile intravedere una forte memoria scharouniana. “Il volume esterno delle architetture scharouniane – scriveva Koenig – è sempre incomprensibile di primo acchito, anche perché non è simbolico di alcunché. Nella sua infervorata perorazione dello spazio interno, qualsiasi altro messaggio che non ne derivi è per Scharoun un disturbo, o meglio un preambolo inutile che toglie forza alla sorpresa; che deve arrivare solamente quando si possiede, o si è posseduti dallo spazio interno”8 Altresì nella progettazione di Guido la modellazione dello spazio risulta prioritaria, tuttavia, memore forse degli insegnamenti di Derrida, aggiunge ai suoi assemblaggi di forme plastiche uno spirito di “trasversalità intellettuale”, sviscerando in che modo i differenti elementi del fare architettonico, ciascuno con proprietà e caratteri ben delineati, possano interagire tra loro, sollecitandosi e esaltandosi l’un l’altro. Il Centro servizi, che sorge fuori dall’abitato, risulta opera volutamente indeterminata, essa stimola nei fruitori una “condizione sospesa”, non offre sicurezze, verità prestabilite, sicuri punti di riferimento. Piuttosto stimola curiosità, suscita partecipazione, vuole scuotere dall’apatia, magari anche attraverso la provocazione, quanti con esso verranno a contatto.
Il manufatto denota altresì l’attenzione con cui il progettista segue il dibattito architettonico. Infatti, come sempre dovrebbe essere in ambito artistico ed intellettuale (e per le riflessioni svolte con dignità e serietà lo è), bisogna sì muovere da ieri, ma con lo sguardo rivolto al domani. Ciò anche perché “…una delle funzioni di ogni invenzione artistica o formale è di rimodellare il passato, di elaborare retroattivamente la propria discendenza, di trasformare e di redistribuire la storia del codice;” 9 Se infatti l’opera palesa, come detto, una decisa memoria scharouniana, al contempo dimostra la capacità dell’architetto di cogliere spunti dall’attuale panorama architettonico, mai però supinamente, ma sempre rivisitandoli alla luce della propria, personale poetica. In particolare, si legge in questa opera, come nelle successive, l’irrevocabile “violazione tonale”, (che se pur formulata dapprima in ambito musicale, ha investito poi tutta la modernità) del Behnisch più maturo e radicale, si pensi ad esempio all’asilo d’infanzia a Lungisland, o alla “Geshwister scholl” a Francoforte; o ancora all’opera di Coop Himmelb(l)au, dove la poetica delle lacerazioni e delle violazioni è estrema, pronta ad aggredire tutto ciò si pone come perentorio, comprese le preesistenze, per formulare spazi fluidi, fluttuanti, lievitanti come nuvole, in grado di prefigurare nuove idee di spazio e di città peril terzo millennio.
Si persegue in pratica, nell’opera di Guido, un’estetica della rottura, atta a lacerare i linguaggi più consueti, eliminando ogni compromesso formale, per tentare di dar voce, quanto più possibile radicalmente, all’immaginario. Poiché l’architetto è consapevole che se a esso non si dà mai la parola, se puntualmente resta ignorato e represso, essendo lo stesso anche “voce del desiderio”, il rischio è che da quel silenzio e da quella repressione si levi, prima o poi, l’urlo e/o il lamento del sintomo. Presentando il Centro servizi su “L’Architettura. Cronache e storia” del giugno 1994, scrivevo: “l’architettura è indissolubilmente soggetta a leggi, vincoli e limitazioni che altre forme d’arte non conoscono (…) Al costruire è dunque preclusa, inappellabilmente, l’onirica dimensione, oltre il tempo e lo spazio in cui Chagall, ad esempio, fa lievitare e galleggiare le sue figurazioni.
E tuttavia, con quei setti che l’architetto fa fuoriuscire ed innalzare al di là dei volumi, determinando un moto di espansione ed ascensione, sembra voglia comunicarci qualcosa. Meno di un intento, forse appena un’aspirazione: che l’uomo, pur se immerso e sommerso in un reale difficile e/o impraticabile, pur se legato a condizioni contingenti che lo coartano, deve comunque ambire a portarsi oltre. Deve essere capace di rischiarare il vivere, la quotidianità, della luce e delle illuminazioni che unicamente la réverie è in grado di suscitare e apportare. E questo non per auto-esiliarsi nel sogno sterile, bensì per prefigurare e rendere dunque realizzabile un domani migliore.” La réverie appunto, “voce” e “strumento” dell’immaginario, che da sempre Guido ha eletto fattore determinate e irrinunciabile del suo vocabolario espressivo. Anche perché senza la forza prefigurativa, la capacità di anticipare e prevedere, proprie dell’immaginario, è difficile che gli apporti riescano a superare l’angusta soglia del banale e dello scontato, per lievitare verso l’eversivo e l’inedito.
E’ doveroso un cenno ai disegni di Guido, per la cura e l’attenzione riservate a essi dall’architetto, per i raffinati cromatismi che esibiscono, per l’intrinseca godibilità estetica che presentano, per cui molti potrebbero essere esposti come quadri. Taluni addirittura essere scambiati, naturalmente da un non addetto ai lavori, come produzione di un artista anziché di un architetto. Il che, viste comunque le realizzazioni, dimostra non che il progettista indulge nel “bel disegno”, piuttosto, derridianamente, manifesta una volontà ad aprire e contaminare la specificità del proprio linguaggio, farne uno “strumento polivalente”. In tal senso muta il linguaggio, lo trasforma in una sorta di “gioco”, anche se assolutamente serio, in cui le forme e le espressioni dei vari ambiti artistici possono confluire; anche decontestualizzando gli strumenti specifici dell’architetto, “Spiazzandoli” e sottraendoli al loro compito più diretto, per caricarli di significati più allargati e complessi, ampliandone la referenzialità. Ciò, visti i risultati, non rappresenta una ritirata verso il “bel segno” fine a se stesso, né tantomeno un ripiegamento verso lo scenografico, ma un ritorno al prodotto architettonico, ossia al manufatto, con un approccio formale più ricco, in quanto, attraverso l’azione di rottura sugli stessi strumenti grafici, si è prodotta una ricerca linguistica più intensa e allargata, da cui scaturisce un arricchimento della stessa invenzione spaziale. Sicché l’elaborazione grafica è per Guido “scrittura” progettuale nel senso più letterale del termine, un elaborare “frasi di architettura” attraverso l’accostamento di elementi costruttivi ripensati, ogni volta, in funzione del manufatto che il progettista va immaginando. Una scrittura, è evidente, nervosa, che procede per scatti, accumulazioni, lacerazioni, assemblaggi eterodossi, dove il progettista sembra voler essiccare e minimizzare l’aspetto tecnico e tecnologico del fare architettura, per dare spazio alle possibilità espressive dell’immaginazione e dell’invenzione linguistica. Ne scaturiscono disegni, in modo particolare quelli iniziali, ambigui, incompleti, che sembrano ipotizzare e/o alludere non solo al manufatto che sulla loro scorta verrà poi realizzato, ma anche ad altre possibili opere. Detto altrimenti, sono disegni indeterminati, in base ai quali potrebbe essere costruito non un solo manufatto ma alcuni, e tra loro differenti. In più tavole, il segno giunge sino ai bordi del foglio e sembra andare oltre, a dichiarare come la bidimensionalità dello stesso sia solo temporaneo limite fisico, impedimento momentaneo, cui il progettista non vuole né deve soggiacere, in quanto quei segni, mutandosi in seguito in spazio, sono già oltre le dimensioni e le possibilità del foglio. Elaborazioni grafiche caratterizzate dunque sì da un’urgenza liberatoria, cui è comunque implicita la consapevolezza che, essendo l’aspetto operativo soggetto a molteplici limiti, compromessi, restrizioni, è indispensabile che le ipotesi spaziali contenute nei disegni, sappiano adattarsi alle necessità imposte dalla fase operativa del costruire.
Nel Centro per lo studio e le minoranze albanesi, presso S. Giorgio Albanese (CS), anche questo fuori dal centro abitato, su una collina che domina la piana di Sibari, i volumi che si distorcono compenetrandosi l’un l’altro, le superfici saettanti in obliquo, le coperture che lievitano e decrescono, narrano la perdita di ogni centralità. Più non è possibile, dichiara l’architetto, riferirsi ad una priorità linguistica in grado di garantire, di offrire una “parola rassicurante”. Non esiste cioè un linguaggio semanticamente più importante, prioritario, capace di ergersi come egemone per accogliere, consolatoriamente, nel suo ambito espressivo quanti hanno da raccontare qualcosa. Forze molteplici e centrifughe, hanno frantumato ogni unitarietà linguistica, i frammenti sono stati dispersi e mischiati. Tocca ora all’architetto ricostruire e ricomporre, in base alla propria soggettiva sensibilità, quei frammenti secondo il discorso utile per quel particolare frangente e contesto. Va da sé che tale lavoro di riassemblaggio dovrà essere reiterato ogni volta. Usare cioè in maniera disinibita, e tuttavia con rigore, i frammenti linguistici dal progettista ritenuti opportuni, consapevole però che alla successiva occasione bisognerà ancora ricercare nella avvenuta frammentazione e disseminazione linguistica, per capire se è possibile narrare ancora meglio quell’idea di spazio che l’architetto si porta dentro. Il manufatto, con i suoi spazi in bilico tra caos ed espressività, il suo svilupparsi sempre deviante, denota come dissolto ogni concetto e/o pregiudizio di consonanza e compostezza, solo attraverso un discorso capace di svilupparsi per “frasi atonali” è possibile sintonizzarsi sullo spirito dei nostri giorni. Sicché la polifonia di tensioni e collisioni, ostentata orgogliosamente dall’opera, rappresenta per Guido l’unico discorso possibile per rigenerare i valori estetici, quei valori in grado di emendare l’uomo dall’appiattimento intellettuale e spirituale, stimolandone le capacità critiche. Né parlare di valori estetici è questione secondaria, da relegare esclusivamente alla sfera artistica. Essi infatti rappresentano, in una visione laica, il mezzo per portarsi oltre il senso di finitudine inesorabilmente iscritto nel destino dell’uomo. Una critica disfattista, equivocando senso e intenzioni, potrebbe leggere in un edificio come il Centro per le minoranze albanesi, nella trasgressività accentuata, esibita come fattore caratterizzante, quasi una sfiducia nelle possibilità/capacità espressive dello specifico disciplinare. In sintesi, leggere i materiali linguistici del costruire, come un coacervo di lacerti, da cui il progettista estrapola a suo piacimento nella più assoluta arbitrarietà, tanto alcun valore semantico in essi è più contenuto. Invece, al contrario, l’architetto attraverso la disinibita manipolazione e accostamento che effettua dichiara come nessuna Legge governi la quotidianità, nessun Nomos può contenerla, spiegarla, dirigerla, in quanto la vita è sempre imprevedibile, e allora il significato che quei frammenti linguistici devono assumere o riassumere, è precisamente quello di conformarsi alla vita, diventare come essa mai del tutto prevedibile e tuttavia parzialmente programmabile, soggetta cioè ad un progetto aperto e sempre da ridefinire che la sottragga, almeno in parte, al cieco accadere degli eventi. Il che rappresenta un irrinunciabile principio di libertà. Se infatti tutto fosse frutto del caso, se l’uomo non avesse facoltà alcuna di intervenire sulla propria vita e sul proprio destino, se fosse cioè privo di ogni responsabilità, che fine, appunto, farebbe la sua libertà? Sarebbe egli solo un automa, oggetto e vittima di eventi estranei ad ogni sua volontà, ad ogni suo potere decisionale, e pertanto costretto solo a subirli.
Se è vero, come credo, che “Il mondo dell’arte è quello di un altro principio della realtà, dell’estraniazione, e solo come estraniazione l’arte svolge una funzione conoscitiva, comunicando verità non comunicabili in altri linguaggi, in una parola contraddicendo”10 l’architettura di Guido, considerando i contesti sociali e culturali in cui è realizzata, che deliberatamente si pone come opposizione al consueto, fattore “perturbante” di ambiti in cui spesso impera un’edilizia avvilente e dequalificata, contestando dunque uno stato di fatto, sicuramente può essere valutata come “principio di conoscenza”. Proponendo infatti valori estetici dissonanti, le sue opere non passano inosservate, incuriosiscono, si pongono come “nota stridente”, in qualche modo “obbligano” la gente a osservarle e a prendere atto che vi sono altre forme di concepire un edificio. Dunque, per dirla ancora con Marcuse, “L’arte non può cambiare il mondo, ma può contribuire a mutare la coscienza e gli obiettivi di coloro, uomini e donne, che potrebbero cambiarlo.”11
Nel Centro turistico a Pescolanciano (Isernia), l’architetto ribadisce, con testarda coerenza, la sua determinazione a modellare spazialità il cui valore estetico, grazie alle dissonanze che articola, sia in grado di essere incentivo alla riflessione, manufatti che stimolando una maggiore attenzione siano altresì capaci di suggerire ai fruitori un diverso rapporto con lo spazio. Nell’opera un opporsi di forme lacerate, accesi cromatismi, slanciati setti in calcestruzzo in cui come squarci trovano posto le aperture, planimetrie organizzate in diagonale, raccontano di come l’architetto intenda il progetto, l’esercizio del mestiere, non come ricerca di equilibrio, accordo, ma esito di una violenza che il pensiero compie su se stesso ancor prima che la mano tracci il segno sul foglio bianco.
Bisogna essere “empi e indecenti”, afferma il progettista, ritrovare il gusto dell’insolenza, dello sberleffo, per liberarsi al meglio di ogni incrostazione, per demolire le sedimentazioni della lingua e dei pregiudizi estetici che comunque ciascuno si porta dentro, consapevoli tuttavia che ogni cosa comporta un rischio e ha un prezzo. Nel caso specifico, il discorso architettonico si svolge nelle opere di Guido per brani, parti separate, non solo dunque la loro comprensione risulta più complessa, ma soprattutto, tendendo a rendere complesso e scompaginare anziché semplificare il vocabolario architettonico, non è difficile che le sue architetture trovino decise resistenze, e pur attraversando attualmente il dibattito architettonico una fase particolarmente viva, ricettiva e libera, opere come il centro turistico a Pescolanciano, così come le altre, rischiano di incontrare più avversari che estimatori. Ma di ciò il progettista sembra non curarsi, persuaso com’è che prefigurare spazi statici, chiusi, uniformanti significherebbe tradire la propria vocazione, il convincimento che l’architettura, al pari di ogni altra arte e/o attività intellettuale, debba instillare il dubbio, essere scommessa, veicolare quel pensiero che è volontà di azione, progetto di modifica.
In Casa Mottola ed in Casa Cappello la creatività dell’architetto si misura e ricalibra sulle esigenze, reali e/o indotte, del committente. Il tema dell’abitazione è comunque svolto da Guido mantenendo riconoscibile la sua poetica. La più contenuta dissoluzione della scatola edilizia, viene riscattata da un più attento studio del particolare, come dimostra il disegno della pavimentazione esterna, in cui ribadendo e enfatizzando le disarticolate diagonali della planimetria si vuole intensificare la reciprocità di spazio interno e spazio esterno, due dimensioni, per l’architetto, non antitetiche ma complementari.
O ancora, la cura delle inferriate in casa Mottola, un segno, nel senso più letterale del termine, che anima le facciate, elementi che prima di essere delle grate, con la funzione a esse proprie, vogliono essere traccia, geroglifico di una scrittura architettonica tesa e volutamente interrotta.
Non è possibile concludere questa prima, necessariamente incompleta, analisi dell’opera di Guido, senza avanzare una riflessione, sia pur sintetica, su quanto l’architetto ha prodotto e per i concorsi cui ha partecipato, e con i lavori non ancora approdati alla fase operativa. Ciò per la tensione e l’impegno profusi in tali progetti, quasi come se gli stessi non fossero, almeno al momento, personale ricerca, ma dovessero realmente affrontare la verifica del cantiere. Fatto che palesa: 1) quanto l’architetto creda nel proprio mestiere, nella capacità dello stesso di essere non solo momento di impegno intellettuale, ma operativo cuneo, in grado di operare, nel tempo, mutamenti nella complessa trama costituita dalla psiche degli uomini, e dalle sinergie che nascono tra questa e il contesto, sia fisico che sociale. 2) La sua personale urgenza di esprimersi. L’orgogliosa rivendicazione del diritto a raccontare, attraverso l’opera, il soggettivo labirinto di pulsioni, adesioni intellettuali, affinità elettive, aspirazioni, e perché no, cadute, perplessità, tentennamenti, contraddizioni. Insomma, l’intricato reticolo attraverso cui si snoda l’esistenza di ogni uomo. Accennare a tutti questi lavori, al momento nel cassetto, non servirebbe ad approfondire l’esame critico, mi sembrano d’altronde decisamente eloquenti le immagini riprodotte in queste pagine. Tuttavia, credo necessario ricordarne almeno tre. Il progetto per un’edicola a S. Giorgio Albanese (OS). Un intervento di dimensioni contenute dove, forse anche per questo, l’architetto sviluppa e approfondisce in maniera accurata e matura lo studio dei dettagli, talvolta meno curato nelle realizzazioni maggiori. Setti in obliquo sviluppano campi di forze dinamiche che, se il progetto fosse realizzato, agirebbero oltre lo stesso manufatto per espandersi nel contesto. Planimetricamente una matrice triangolare, attraverso ideali rotazioni e sovrapposizioni, articola spazi frastagliati nonostante le contenute dimensioni. Un segno, quello del progetto, che continuamente sembra “biforcarsi”, divergere, ne segue una configurazione plastica che mai, in nessun tratto risulta unitaria, ma sempre mutevole, variabile. Un segno che allude ad un’ininterrotta, interminabile transizione. Crollata, sotto i colpi infortì da una quotidianità sempre più segnata da disarmonie, l’idea classicista della consonanza, ogni forma definita e univoca risulta anacronistica e impraticabile. Pertanto, il segno di Guido, che vuole altresì registrare la condizione di crisi che della modernità risulta essere un’invariante, fa dell’indeterminatezza, dell’irregolarità, della “dissipazione” il suo punto di forza oltre che la sua nota caratterizzante. Nelle pieghe e contropieghe, negli strappi, negli scatti, nelle impennate, esibiti dai disegni, sembra che l’architetto ricerchi quel senso altro, quel significato diverso, forse più profondo e denso, proprio del fare artistico, avvertito dall’uomo, sin dalle sue origini, come urgente, irrinunciabile esigenza.
Nel concorso internazionale “Living in the city”, a Mosca, l’architetto sembra abbia metabolizzato in maniera piena e matura la lezione decostruttivista, in particolare, mi pare, che in questo lavoro egli mediti approfonditamente alcuni interventi dei Coop Himmelb(l)au. Naturalmente, rielaborando il tutto alla luce della sua personale poetica.
La preesistenza, un edificio ad uso residenziale privo di particolari pregi e qualità architettoniche, viene aggredito, manipolato. Setti murari, risegati e modellati, emergendo dal fabbricato e spingendosi verso la strada, diaframmano la facciata azzerandone la piatta continuità, per animarla in sequenze e scorci volutamente disarticolati. La pelle dell’edificio cambia, ad enunciare i mutamenti, pur nel rispetto della volumetria esistente, degli spazi interni, non più dominati dalla dittatura dell’angolo retto, ma per quanto possibile emendati con pareti ed elementi in obliquo. La disseminazione di elementi linguistici (e la loro ibridazione), svolta dal progettista sulla preesistenza, riafferma la sua idea di sviluppo dell’organismo architettonico, inteso come processo che dall’indifferenziato muove verso il particolare e il caratterizzato, per successive e sempre più decise diversificazioni. Detto altrimenti, non c’è omogeneità e/o universalità, esistono invece specificità e difformità, compito del progettista è di ricomporle, facendole interagire l’un l’altra, e facendo salva ogni peculiarità, in un “discorso” che abbia senso.
Il progetto per la sistemazione di piazza Toscano a Cosenza, che al concorso internazionale “Paesaggistica e linguaggio. Il grado zero dell’architettura”, svoltosi a Modena, ha meritato il 1° premio per il linguaggio, ed attualmente in fase di realizzazione, celebra ancora un approccio plastico/formale che si pone sì sotto la cifra dell’antitesi, ma per far rivivere il contesto alla luce di una moderna coscienza estetica. L’invaso, abbastanza contenuto, viene dilatato dall’architetto, da un punto di vista percettivo, con piastre che svolgendosi a vari livelli e tra esse pluridirezionate, animano lo spazio in scorci imprevisti, sequenze che rinviano il futuro fruitore a percorrenze svolte, di volta in volta, con ritmi diversi e assolutamente soggettivi. Le piastre, con arditi aggetti di oltre sei metri, si lanciano sul vuoto sottostante, ove vi sono dei ruderi. Sicché all’ambiguo fascino di questi, “destrutturati” e resi aleatori dal trascorrere dei secoli, si innesca il dinamismo informale di elementi costruttivi, in apparenza imprevedibili, come se ammucchiati senza un progetto. Un affollarsi di “oggetti architettonici”, che ricorda il caotico e casuale montaggio dadaista effettuato da Schwitters con il suo “Merzbau”. Qui invece, trattandosi di architettura in via di realizzazione, al di là di ogni apparenza, esiste un disegno preordinato, tra i cui meriti, appunto, quello di sembrare assente. Sintonizzandosi in qualche modo con la poetica del rudere, con quanto cioè il tempo ha distrutto e rimodellato in modo del tutto accidentale, l’intervento (che palesa un alto grado di entropia) ripropone pienamente l’indeterminatezza che caratterizza ogni sito archeologico. Si assiste così a un sovrapporsi, stratificarsi e ingarbugliarsi del segno, svolto con tale partecipazione, impegno e determinazione che davvero sembra un’enunciazione, una espressa dichiarazione di principio. Sembra che l’architetto, facendo eco a Deleuze, voglia ribadire come: “Occorre essere predisposto ai segni, aprirsi al loro incontro, aprirsi alla loro violenza. L’intelligenza viene sempre dopo, vale quando viene dopo, non vale che allora. Non c’è logos, ci sono soltanto geroglifici. Pensare è dunque interpretare, è dunque tradurre. (….) Dovunque il geroglifico, il cui duplice senso è il caso dell’incontro e la necessità del pensiero: «fortuito e inevitabile».”12
E come non essere d’accordo, consapevoli che il segno, qualunque sia l’ambito disciplinare cui esso è riferito, rappresenta ad un tempo la traccia, la memoria di un passato, di una storia da cui esso, denso e contaminato, si origina per poter quindi, trasformandosi ed evolvendosi, prefigurare, o almeno tentare di farlo, il domani.
1. “L’Architettura. Cronache e storia”, dicembre 1979, n.12, fascicolo n.290.
2. Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Einaudi, Torino 1963, p.23, ed.1982.
3. Alessandro Cappabianca, Distruggere l’architettura, Serra e Riva Editori, Milano 1979, p.39.
4. Umberto Eco, Opera Aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee, Bompiani Milano 1962, p.212, ed. 1980.
5. Il concetto è di Karl Klaus, in: Detti e contraddetti, Milano 1972, p.135, Bompiani 1987.
6. Umberto Eco, op.cit., p.107, ed.1980.
7. Michel Foucault, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Parigi 1966, Rizzoli, Milano 1967, p.59, ed. 1978.
8. Giovanni Klaus Koenig, Architettura del Novecento. Teoria, storia, pratica critica, Marsilio, Venezia 1995, p.217.
9. Guy Scarpetta, L’Artificio. Estetica del XX secolo, Parigi 1988, ed. it. Sugarco, Milano 1991, p.71.
10. Herbert Marcuse, La dimensione estetica, Monaco-Vienna 1977, ed. it. Mondadori, Milano 1978, p.26.
11. Herbert Marcuse, ibidem., p.48.
12. Gilles Deleuze, Marcel Proust e i Segni, Parigi 1964, ed. it. Einaudi, Torino 1967, p.96.