FRIEDRICH  Come capire che io penso al mondo?

Fossi malato ci rifletterei. Che idea ho delle cose?

Qual è la mia opinione circa le cause e gli effetti?

E che riflessioni ho fatto sull’anima e su Dio?

E sulla creazione del mondo…non lo so.

Per me,  pensare a questo significa chiudere gli occhi

e non pensare a niente

Wim Wenders, Lisbon Story

 

 

Coi tuoi occhi

non pensare a niente

non essere più niente

il mio volto che si specchia

riflesso dai cerchi

geometrici dell’acqua

tutto il tempo

che mi ha portato via

il tempo che è andato

e mi ha portato via

e ora, che non sono

più quello di allora

ora, che non so chi sono

“ora che ricordo

le ore nel corso del tempo

desidero ritornare

ritornare da te

desidero incontrarti

dimenticata”

quando non ti incontrai

nel passare dei giorni

non m’accorsi della grazia

dei tuoi occhi

che amai

sempre solo

i tuoi occhi

che, ad occhi chiusi,

io vidi e che amai,

“il tuo fu un amore

che non trattenni

e forse mi ha distratto

qualcosa che ho trovato” 1

o che non ho trovato

questa mia vita

che passa

e che non ho capito

perché non vidi

i tuoi occhi

qualcosa mi ha distratto

e ora, che non ricordo,

e che non ho trovato

ora vorrei aver visto

con i tuoi occhi

(forse t’avrei amato)

questa notte si rovescerà

in un’altra notte

il mio viso si dissolverà

in altri specchi

e finalmente

rivedrò il tuo volto

e finalmente

io vedrò con i tuoi occhi

perché se qualcosa è vero

di questo viaggio

menzognero

io lo ritroverò

proprio dove

io non ti trattenni

nel fragore delle onde

di questo mare

che non si stanca

di gridare

nel silenzio di queste notti

cariche di racconti contadini

dei campi di grano e delle tue chiese

che solitarie attendono

sul finir della sera

l’ultimo assalto

dell’assedio del sole

che le divora

Calabria

Le estati del sud non sono come tutte le altre, le notti non dissetano i giorni, i giorni non illuminano il mondo, che si dissolve sotto il nostro sguardo, incertezza dell’essere l’esausto sfinire delle cose, incauta solitudine, l’inseguimento e la caccia che si chiude, la trappola che si richiude.

Ma quella mattina c’era troppa luce, quella mattina tra i faggi e i castagni sulla rotta del mare d’oriente, sulla statale 110, tra i faggi e i castagni verso Serra San Bruno.

Sorge come per incanto la chiesa barocca dello Scaramuzzino, slancia verso l’alto la sua esile ed elegante facciata, silenziosa dopo una dura lotta s’avanza su quello slargo affiancata da semplici case contadine.

Anticipazione di altre apparizioni, avamposto solitario, preludio di nuove luci.

“Ed è la foresta del silenzio… ed è la foresta dove si dimentica, dove si ascolta!

…Ora, colui che entra e che guarda, abbagliato dall’opera tratta da un sogno, ritrova in modo inevitabile eroiche ricordanze. Egli evoca, in un bosco tessalico, Orfeo, sotto i mirti: e scende la sera antica.

A poco a poco il bosco sacro si empie di luce, e il dio ha tra le sue dita d’argento la lira. Il dio canta e, secondo il ritmo onnipotente, le favolose pietre si elevano al sole, e si vedono le armoniose mura d’oro di un santuario crescere verso l’azzurro incandescente”.2

Stilo

E l’ostinata barriera di quella vita murata e poi di nuovo verso il richiamo del mare nel tramonto sulla fiumara lunare dello Stilaro, tra agavi e ulivi, attraverso il ghiaiato del torrente tra le rocce erose dalle acque e dai venti

Rigirando lo sguardo, indietro, alta e nobile Stilo, sotto le rocce del Consolino, oltre Stilo, il fiore solitario della Cattolica.

Non più chiusa entro l’ignota foresta,

ora al fianco della ruvida roccia,

non più grotta ora tempio,

non più nascondimento,

intimità profonda

che risale alla luce

della sua orgogliosa separazione

incantata riemerge dalla sua sacra notte

come gemma preziosa

riluce

e s’incastona

sul fianco del crinale

intimo scrigno

che raggruma lo sguardo

e consola del viaggio

e conforta del dolore

di quel sole che scende

e si disperde

in una notte chiara

notte di luna nuova

e raddoppia il prodigio

non è notte di solitudine

questa notte di luna

L’utopia di Campanella spezza ogni barriera di luogo e di tempo. O forse da sempre ha abitato oltre ogni distanza. Tra le betulle del bosco di Vlas’icha, tra i soli e le lune del sogno di un pittore di icone.

La città del sole

L’utopia di Ivan Il’ic Leonidov,

architetto sovietico visionario,

costretto dall’ignominia del suo tempo

ad una pura attività di prefigurazione progettuale,

e, per questo feroce paradosso,

accusato apertamente da coloro che lo ostacolavano,

di essere nient’altro che

un sognatore incapace e inadatto

al mestiere di architetto,

ossia di costruire edifici,

supera le meschine barriere

costruitegli intorno dalla mafia del suo tempo.

La sua opera, a mano a mano che si procederà

dagli anni eroici dell’avanguardia

agli anni ostili dello stalinismo,

sembra trovare un’intensità e una bellezza inedite,

una sua propria forza,

come sorretta dal fuoco di una fiamma interiore,

di una sua segreta e insopprimibile solitudine,

fino a configurarsi e rivelarsi

come l’incessante approfondimento

di un’unica immagine primaria.

Se l’Unione Sovietica aveva dissipato i suoi poeti

essi non avevano per questo rinunciato ad essere tali.

Dapprima impercettibilmente

e poi sempre più dichiaratamente

l’opera di Leonidov,

a partire dal terzo ed ultimo periodo,

dal 1941 al 1959,

periodo dunque che sintetizza i due precedenti,

si concentra intorno al tema

dell’utopia di Tommaso Campanella,

la Città del Sole.

Con questo titolo Leonidov

indicava il sogno di una vita,

la complessa elaborazione di una nuova,

singolare ed unica forma di sintesi architettonica.

Una metafora complessa e continuamente in evoluzione,

una miniera di idee e forme in trasformazione,

utopica visione dell’inserimento armonico

nella natura della collettività umana,

attraverso la riduzione dell’architettura

a segni forti e minimali,

strutture architettoniche austere e persino ascetiche,

che risentono della concezione della vita del poeta

e della sua stessa vita,

l’infanzia a Babino, nella contrada di Lukovnik,

regione di Kalinin,

infanzia contadina,

nel bosco di Vlas’icha

Qui non serve a nulla

crearsi una maschera,

sono inutili gli intrighi e le furbizie

E fin dall’infanzia,

fin da quando si formano per sempre la mente e il cuore,

questa verità sarà vera per Leonidov.

In questo sarà la forza indomita dell’artista,

in questo la sua fatale debolezza.

Oltre il bosco e il villaggio,

Ivan Leonidov fece le sue prime esperienze

nel campo delle arti figurative

nella bottega di un pittore di icone.

E fu proprio il lavoro sulle icone

che trasformò Leonidov

da adolescente in un giovane adulto.

Un assoluto bisogno di verità,

una forza spontanea,

una padronanza artistica sorprendente,

l’autorità religiosa della tradizione

e la tensione ad una sintesi compiuta,

l’infinito processo di smaterializzazione

che conduce le sue forme

quasi a dissolversi

in una più alta sintesi filosofica.3

Come un eremita che medita

sul destino dell’uomo,

Leonidov dipinge le sue immagini

per un’architettura antagonista,

bellissima, librata

tra terra e cielo,

profezia di un’architettura

sciolta in una costellazione

instabile e dinamica.4


Ogni cosa si trasfigura

nei mondi visionari e fantastici

della Città del Sole

ove forme geometriche purissime

s’innalzano e conducono l’architettura

ad una trasfigurazione cosmica.

Fili sottilissimi s’innalzano

e sospendono i pianeti.

Piramidi fantastiche si tendono

e divengono obelischi di cristallo.

Sulle isole della Città del Sole

nascono fiori

che nessuno ha mai disegnato.

Dimmi, soldato-architetto, e artista

che monumento erigerai a me

che muoio per la felicità degli uomini?

Solo la felicità degli uomini

può esserti monumento5

“Di’, di’ mo, per vita tua,

come è fatta questa città?

E come si governa?

….e tiene un libro solo…E questo ha fatto pingere in tutte le muraglie, su li rivellini, dentro e di fuori…

Nel dentro del primo girone tutte le figure matematiche. Nel di fuore vi è la carta della terra tutta, e poi le tavole d’ogni provinzia con li riti e costumi e leggi loro, e con l’alfabeti ordinari sopra il loro alfabeto.

Nel dentro del secondo girone vi son tutte le pietre preziose e non preziose, e minerali, e metalli veri e pinti. Nel di fuore vi son tutte sorti di laghi, mari e fiumi, vini ed ogli ed altri liquori…e ci son caraffe piene di diversi liquori di cento e trecento anni, con li quali sanano tutte l’infirmità quasi.

Nel dentro del terzo vi son tutte le sorti di erbe ed arbori del mondo pinte. Nel di fuora tutte maniere di pesci di fiumi, laghi e mari…e le simiglianze c’hanno con le cose celesti e terrestri e dell’arte e della natura; sì che mi stupii, quando trovai pesce vescovo e catena e chiodo e stella.

Nel quarto, dentro vi son tutte sorti di augelli pinti e lor qualità, grandezze e costumi, e la fenice è verissima appresso loro. Nel di fuora stanno tutte sorti di animali rettili, serpi, draghi, vermini, e l’insetti, mosche, tafani..

Nel quinto, dentro vi son l’animali perfetti terrestri di tante sorti che è stupore.

Nel sesto, dentro vi sono tutte l’arti meccaniche, e l’inventori loro, e li diversi modi, come s’usano in diverse regioni del mondo. Nel di fuori vi son tutti l’inventori delle leggi e delle scienze e dell’armi…

E li figliuoli, senza fastidio, giocando, si trovano saper tutte le scienze istoricamente prima che abbin dieci anni. 6

Oltre la strada, che corre deserta tra i boschi di larici e di abeti e di faggi sui monti della Sila, solitario attende un gigantesco elefante di pietra, silenziosa sentinella di un paesaggio mitico, attesta l’antico passaggio di genti e di eserciti, assurda testimonianza della deriva visionaria della storia.

Il nuovo mondo

cosa sono queste immagini

che attraversano la mia mente

immagini di un sogno

cosa è questo sogno

di navi e mare

e acqua

da dove vengono

queste navi

e dove vanno

presto scomparse

in altre nebbie

e in altri mari

quando ritorneranno

e il fumo dei cannoni

perché questo sonno

sugli alberi delle navi

ancora mare intorno

nella nebbia del mio sogno

l’immobilità del tempo

perché questo fuoco

e questo fumo

questa luce

cosa è vero ora

cosa eravamo allora

cosa sono queste immagini

che confondono la mia mente

tutto mi scorre intorno

io mi distendo sulla nave del tempo

Il mare di ghiaccio

Il “Mare di ghiaccio” si ispira alle spedizioni polari delle navi Hecla e Griper, del 1819-20 e del 1824, che ebbero vasta eco nella stampa e nella pittura di paesaggio dell’epoca. 7

Su di una distesa livida che lascia scorgere in lontananza ombre di apparizioni lunari, lastre di ghiaccio si spaccano fin sotto la nostra presa di naufraghi, si inclinano paurosamente e sollevano quasi a configurare un’antica stratificazione geologica, si dispongono obliquamente nel paesaggio, ora chiudendosi ora aprendosi verso questo, immateriale e concretissima architettura di roccia e di cristallo.

Si intravedono appena la poppa d’una nave travolta e quasi sepolta, col suo albero inclinato e la vela come lancia e scudo di guerriero che soccombe.

La montagna di ghiaccio s’inalbera minacciosa, si sospende nell’immobile eternità, al limite dell’universo, appena prima di tornare ad infrangersi e a nascondersi, come un mostruoso animale, al di sotto dell’infinito silenzio della calotta polare.

La cattedrale di cristallo si raggela  immobile nell’eternità dei ghiacciai, s’innalzano le lastre le une sulle altre, unghioni di ghiaccio lacerano l’apparizione, l’arpionano all’immobile infinito movimento cosmico.

Sublime architettura dipinta, il Mare di ghiaccio di Friedrich è romantica potente prefigurazione di tutta l’architettura dell’espressionismo, scomposizione e ricomposizione, drammatica tensione trattenuta, energia compressa al limite di ogni possibile espansione, la materia come destino si carica d’ansia scrutando l’enigma irrisolto di Dio.

Attraverso Dresda la modernità espressionista si fissa sui cardini dei secoli, 1824, il Mare di ghiaccio di Friedrich, 1905, nasce Die Brucke, 1998, Coop Himmelblau completa lo splendido UFA CINEMA PALACE. Prismi di cemento e cristallo emergono e oscillano, s’innalzano o sono sul punto di crollare tra le aleatorie esistenze che si intrecciano e appaiono inconsapevoli sul bordo livido di una nuova notte.

Altre volte la pittura avrebbe anticipato l’architettura, dal diamante di Cezanne, l’interminabile poliedro, che agisce a formare tratti d’acqua e di cielo, a tanta architettura organica e razionalista, dal costruttivismo cubista alle meditazioni del neoplasticismo, dall’astrattismo organico e geometrico di Kandinsky a Mendelsohn e a Scharoun.

La vertigine della storia

Dalla Città del Sole, illuminata dalla luna di Stilo, ai boschi di Leonidov.

Il mito emigra.

Dalle rocce di ghiaccio del brumoso nord del pittore di Dresda il dramma ritorna, tragicamente a ricordare dell’incompiuta ossessione, del sogno sfigurato, di quel sole sognato, di un risveglio amaro, e s’inverte la rotta, simbolo rovesciato, parabola interrotta.

L’orrore della guerra, ma anche il coraggio della lotta, si cristallizza nell’esplosione di schegge del bellissimo monumento alla Resistenza di Cuneo di Umberto Mastroianni.

A piazza Toscano a Cosenza, il buco nero della storia si apre a voragine tra i cristalli e i frammenti di un ordine infranto e a fatica ricomposto, perduto e cercato, a risalire il tempo, tra i resti del passato, indecifrato e incerto, ci aggiriamo tra specchi alla ricerca di una parola nuova, tra lame lucenti, sangue rappreso e rinnovate rappresentazioni, del nostro viaggio interrotto, in attesa di una rivelazione.

Il viaggiatore romantico intraprende finalmente il suo viaggio doloroso tra le rovine della storia e le rovine generano nuove metamorfosi, specchi della coscienza, interrogazioni taglienti, magnifici eroismi, destinati al martirio e all’oblio, lucide speculazioni per risalire il labirinto, riaggrapparsi al tempo, ridare senso alla vertigine, ribaltare il responso.

L’architettura di Marcello Guido è architettura razionale ed emotiva allo stesso tempo, mirabile contraddizione, tensione verso un ordine stabilito attraverso un’incessante verifica, ritorno indietro e riprova, accumulazione e rarefazione, contaminazione e purificazione e non ancora stanchezza e ancora fiducia nella lotta, ad un solo passo dalla risoluzione.

Il problema progettuale è la sistemazione di un vuoto urbano.

“L’area, formatasi con il bombardamento della città nell’ultimo conflitto bellico non è stata mai identificata come una vera e propria piazza, ma piuttosto uno slargo, che, venutosi a creare con il crollo degli edifici, non è mai stato sistemato. L’intervento si configura come una sorta di nido d’aquila.

Gli slanci degli oggetti sul vuoto sottostante, al di sopra dei ruderi archeologici, vogliono afferrare lo spazio e dilatarlo ulteriormente per coinvolgere l’utente in una fruizione drammatica e temporalizzata”.8

Circondato da attoniti palazzi sopravvissuti al bombardamento aereo, lastre di ferro e vetro crollano sul vuoto della storia, come a scavare tra macerie, per ritrovarne segni e tracce d’altre vite, e poi risalgono, come artigli rapaci verso il cielo, accumulandosi in grumi deflagranti, in schegge acuminate e spezzate geometrie minacciosamente sospese.

“IL rapporto/confronto con la storia è immediato, serrato, ineluttabile” 9, la lacerazione della storia è tutt’altro che risolta, pacificata, conclusa.

Il solo contatto emana scariche elettriche, genera sussulti sismici.

Le enormi vetrate a stento nascondono il vuoto del passato, le lamine taglienti si impigliano e trafiggono le ali dell’angelo che imprudentemente si è attardato all’imbrunire.

Coraggioso disancoraggio o attonita impotenza? Non si trattava ora di lasciar nello spazio-tempo frammenti liberati, di far galleggiare alla deriva ciò che resta degli incendi immaginari delle avanguardie? 10

Di fronte alla deriva-naufragio di un tempo incomprensibile, nel suo capolavoro, opera storica per eccellenza, ossia opera che parla della storia, Marcello Guido spinge al limite la sua tensione morale, costringe il suo linguaggio a pericolose oscillazioni, sino a vacillare, fin’anche a soccombere, pur di svolgere l’ingrato compito di disvelare la nascosta violenza delle cose.

E tu Alex Bucberger , non scorgesti la mano insanguinata della montagna che si celava tra “le paurose cuspidi di pietra che si slanciano in aria, là dove, tra le fenditure e gli anfratti della terrificante piramide si ergono, quasi conficcate, le case di Pentidattilo?”.

E tu Nik Spatari, quale limpido o oscuro sogno ti spinse a ritornare giù fin nel silenzio d’un antico cenobio bizantino, illudendoti di ribaltare il tempo, di ingannare il destino?

Dunque non sapevi che, “come al contatto dell’aria le antiche mummie si polverizzano”, tutto era già scomparso?

poesia del tradimento

poesia della solitudine

di coloro che

soli ardono di coraggio

e di disperazione.

Le narrazioni rigenerative

Architettura colta e sapiente l’architettura di Marcello Guido, riflessione incessante e rigorosa dei linguaggi e dei tragitti delle avanguardie, di una problematica ancora troppo attuale per essere dimenticata, pensiero insistente e ostinato sui nodi ancora non risolti delle cose, volontà di risoluzione d’ogni contraddizione, d’ogni desiderata riconciliazione, racchiude dentro di sé e del suo farsi smentita ed emozione, unicità e ripetizione.

Eredita in primo luogo l’irrisolto conflitto dell’universalità o dell’individualità dell’arte. Che tradotto in termini politici significa della libertà o della sottomissione.. Espliciti nella poetica di Guido i riferimenti ai linguaggi delle avanguardie, tra tutti i più emblematici sembrano il neoplasticismo  e le composizioni geometriche di Kandinsky.

Mondrian e Kandinsky rivelano nelle loro meditazioni estetiche una profonda tensione spirituale.

Alla base del neoplasticismo vi è, com’è noto, “l’individuazione di uno squilibrio presente nella vita, di un contrasto tra l’individuale e l’universale, che viene definito il tragico (angoscia)…Oltre che nel naturale il tragico in arte s’esprime con il lirismo patetico. Questo, secondo Mondrian, tenta di riconciliare l’uomo con la natura, di neutralizzare lo squilibrio esistente tra queste due polarità. E veramente riveste la vita tragica di una sconosciuta bellezza. Ma crea tuttavia una bellezza fittizia:    un’illusione.

Connessa alla natura e al lirismo, l’arte non assolverebbe in pieno al suo compito: eliminare il tragico della vita. L’arte, scrive Mondrian, ha per scopo di vincere l’espressione individuale e di mostrare, fin tanto che è possibile, l’espressione universale della vita, che è al di sopra del tragico. Pertanto l’arte può considerarsi come il sostituto della vita, scomparendo il giorno che la bellezza si realizza nel pieno della vita stessa. Intanto la nuova arte astratta assolverebbe meglio al compito suddetto in quanto rifiuta il lirismo naturalistico. L’arte, perché arte astratta ed in opposizione con il naturale concreto, può precedere la sparizione graduale del tragico. Più decresce il tragico e più l’arte acquista purezza.” 11

E ancora Kandinsky: Non si può teorizzare sul prossimo cammino, che avrà luogo nel regno dell’immateriale…Solo il sentimento può riconoscere lo spirito che ci porta al regno di domani.

Insomma, l’azione della necessità interiore e lo sviluppo dell’arte sono una progressiva espressione dell’oggettività eterna nella soggettività temporanea. E dunque la lotta dell’oggettività contro la soggettività. 12

Così non sono da sottovalutare negli scritti teorici di Guido i continui riferimenti all’architettura di Michelangelo, di Borromini, di Wright.

Il disegno di Guido si sviluppa come una trama incessante ed ostinata, tesa ad ogni istante alla risoluzione ed al superamento, proprio come quel dire e poi ridire e nel ridire, dire ogni volta per la prima volta così come Cesare De Sessa cita da Blanchot nel recensirne l’opera prima.

E in questo avanzare la volontà di eliminare quanto di esterno permane, quanto di non voluto e casuale, verso un’organizzazione lucida e razionale, e ad ogni scarto è un nuovo superamento, ad ogni segno il sogno di una nuova perfezione, ed ogni segno rimanda a quello successivo e non completa, non s’interrompe mai l’azione, in campo smisurato, ad infinita frammentazione conduce quest’ansia di completamento, il sogno di perfezione rivela il suo sgomento, lo spazio diventa tempo, il tempo vuoto il suo rovesciamento.

E la scrittura di Guido procede caricandosi di altissima tensione, fatica verso riposo? Azione verso contemplazione? Espressionismo verso spiritualismo? E in questo avanzare “assimila e contamina codici, dissemina contesti” 13 , come per utilizzare linguaggi e scarti, per neutralizzarne l’aggressività, per decostruirne l’ostilità.

Guido fa architettura barocca per vincerne l’ossessione, per sconnetterne i circuiti, per esorcizzarne la tragicità.

La sua scrittura è tensione morale, ansia di superamento, eroico avvistamento dei rischi della navigazione. ”Le disarticolate sequenze spaziali, i setti obliqui, gli spazi in bilico” 14 narrano di una tensione verso un ricongiungimento, la concretezza dell’architettura diviene metafora del desiderio di plasmare la vita.

L’architettura di Guido è fede incessante nella parola, nella sua capacità di nominare e, nel nominare, salvare, nella sua forza creativa, le parole di Guido intrecciano un racconto antico e nuovo insieme, desiderio di infinita e ininterrotta rigenerazione, narrazioni rigenerative capaci di superare la solitudine della singola vicenda esistenziale, della singola architettura, narrano di una società sognata, di una città nuova.

Nel suo progetto vincitore dal titolo “disordine e gioia” presentato in occasione della celebre conferenza di Modena del 1997, l’idea per piazza Toscano risulta abilmente dissimulata all’interno di una ben più vasta proposta progettuale che coinvolge l’intero centro storico di Cosenza e si propaga e si dilata disseminando l’area che coinvolge l’antico corso Telesio e il lungofiume.

L’ansia progettuale di Guido si distende in una narrazione continua il cui scopo è quello di una trasformazione radicale della città. L’azione passa dal singolo manufatto alla scala urbana, l’intera città risulta scossa e coinvolta da un processo rigenerativo che punta ad una riconfigurazione solo apparentemente disordinata ed incerta, solo apparentemente l’architettura assume lo zero come punto di partenza, e prende le sue forme dalle linee della vita stessa.

Questa è solo la scusa, l’obiettivo è il desiderio di eliminazione d’ogni contaminazione nella scrittura continua d’un infinito poema. L’opera differisce solo apparentemente la sua conclusione.

I segni architettonici di Guido trasfigurano gli antichi paesaggi di Calabria, incidono la mappa di Cosenza, tornano a scrivere “quel libro solo, fatto pingere in tutte le muraglie, su li rivellini, dentro e di fuore” dell’infinito sogno della Città del Sole.

Note

1 – Madredeus, Alfama cit. in Wim Wenders, Lisbon Story, Ubulibri, Milano 1994

2 – Paul Valéry, cit. in Paolo Portoghesi, Barocco e Liberty, Lo specchio della metamorfosi, Luigi Reverdito Editore, Trento 1986

3 – Andrej Leonidov, Ivan Leonidov, Academy Editions, London 1988

4 – Alessandra Muntoni, Le città di Ivan Leonidov, in Metamorfosi n.54, maggio/giugno 2005

5 – Ivan Leonidov, Poesia dal fronte, cit. in A. Muntoni, op. cit.

6 – Tommaso Campanella, La città del Sole, a cura di Adriano Seroni, Feltrinelli, Milano 1979

7 – Helmut Borsch-Supan,  L’opera completa di Friedrich, Rizzoli, Milano 1976

8 – Marcello Guido, Disordine e gioia, in L’architettura, cronache e storia, 503/6

9 – Cesare De Sessa, Strutture innervate nel contesto a modellare spazi, in L’architettura, cronache e storia 563 sett. 2002

10- Alessandra Muntoni, Novanta anni fa, il “Manifesto tecnico della letteratura futurista” di F.T. Marinetti, in Metamorfosi n. 44 gennaio/febbraio/marzo 2003

11- Renato De Fusco, L’idea di architettura, Etas Libri, Milano 1979

12- Wassily Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, SE, Milano 1989

13- Cesare De Sessa, Professionalità senza soggezione, in L’architettura, cronache e storia n. 464, giugno 1994

14- Cesare De Sessa, Spazi decostruiti per dissonanze etniche, in L’architettura, cronache e storia n. 472, febbraio 1995