La modernità  è storicamente legata alla complessità,  ma se volessimo chiederci cosa è  e cosa ha rappresentato  la modernità in architettura  dovremmo necessariamente fare alcune riflessioni  di  natura  storico-critica.

Il termine modernità non può essere associato  ad una epoca temporale.  La modernità è un processo di pensiero  che lega  varie epoche e varie esperienze. In tal senso è un processo trasversale  di esplicitazione del pensiero  che unisce  in modo specifico  epoche temporali diverse ed interviene quando i linguaggi codificati si pongono in una condizione di staticità e  non riescono più a trasmettere  una visione di “futuro” e di “utopia”. La modernità quindi dissolve tutti i paradigmi di riferimento presenti nella società  e propone  una differente coscienza critica. Essa è anche ” frattura” intesa come  lacerazione della tradizione  e segnale di una novità  e di un distacco dalla pura continuità con il passato ed attesa verso il futuro, in altri termini  la modernità diventa crisi di valori.

Ma già nel termine “crisi”  ( dal greco KRISIS che tiene a KRINO:  separo – momento che separa una maniera di essere o una serie di fenomeni da un’altra differente (da: www.etimo.it) )  è possibile reperire una nuova volontà di cambiamento  contro l’attuale  uso comune inteso come elemento peggiorativo di una determinata situazione. Inoltre nella crisi si possono riscontrare i valori di una sfumatura positiva  e quindi un momento di  riflessione per un miglioramento ed una visione di futuro.

Bruno Zevi affermava che la modernità interviene  quando dalla crisi si acquisiscono valori, concetto preso da Jean Baudrillard.  In tal senso la modernità è all’interno dello stesso concetto di crisi, che per portarne fuori i valori deve necessariamente  fare esplodere e decostruire i linguaggi codificati. Decostruire significa a questo punto  azzerare una lingua e proporre una estetica di rottura rispetto agli schemi istituzionalizzati.

Un esempio pratico: La civiltà romana con il perfezionismo dell’età imperiale che possiamo riscontrare nel gruppo marmoreo del Laocoonte

(La statua fu trovata il 14 gennaio del 1506 scavando in una vigna sul colle Oppio di proprietà di Felice de Fredis, nelle vicinanze della Domus Aurea di Nerone. Allo scavo, di grandezza stupefacente secondo le cronache dell’epoca, assisterono di persona, tra gli altri, lo scultore Michelangelo e l’architetto Giuliano da Sangallo inviato dal papa a valutare il ritrovamento, secondo la testimonianza di Francesco, giovane figlio di Giuliano, che, ormai anziano, ricorda l’episodio in una lettera del 1567. Secondo questa testimonianza fu proprio Giuliano da Sangallo ad identificare i frammenti ancora parzialmente sepolti con la scultura citata da Plinio)  wikipedia.org

cozza terribilmente con le immagini espressioniste  e quasi appena abbozzate  delle pitture parietali della prima età cristiana  realizzate nelle spazialità catacombali.

In architettura:

« [Cu]m ex H[isp]ania Gal[liaque, rebu]s in iis provincis prosp[e]re [gest]i[s], R[omam redi] Ti. Nerone P. Qui[ntilio c]o[n]s[ulibu]s, ~ aram [Pacis A]u[g]ust[ae senatus pro]redi[t]u meo consa[c]randam [censuit] ad campum [Martium, in qua ma]gistratus et sac[er]dotes [et v]irgines V[est]a[les ann]iversarium sacrific]ium facer[e decrevit.] »  (Res Gestae Divi Augusti, 12-2.)

L’Ara Pacis simbolo dell’architettura imperiale romana  costruita sul finire del secolo a.c.:

Il 4 luglio del 13 a.C., infatti, il Senato decise la costruzione di un altare dedicato a tale raggiungimento in occasione del ritorno di Augusto da una spedizione pacificatrice di tre anni in Spagna e nella Gallia meridionale.   wikipedia.org

 

 

Petra.  Alla periferia dell’impero i linguaggi si contaminano ed il purismo aulico non è più elemento determinante.

Dove la città dei vivi si contamina con la città dei morti due splendidi esempi di  manierismo tardo imperiale.

La modernità per i filosofi:

Zygmunt Bauman  in: Modernità liquida

La dimensione della modernità liquida si caratterizza anche per un particolare sfondo spazio-temporale. Innanzitutto, molti luoghi delle società contemporanee tendono, nelle realtà urbane, a esiliare l’altro oppure ad annullare la diversità (è il caso delle aree di consumo). Inoltre, alcuni luoghi si configurano, sostiene Marc Augè, come non-luoghi: è il caso di alberghi o aeroporti, sono “spazi privi di espressioni simboliche di identità, relazioni e storia” (p. 113). Anche la sfera temporale presenta nuove caratteristiche: attraverso l’aumento della velocità delle comunicazione e degli spostamenti, la modernità liquida ha reso molte esperienze accessibili con immediatezza. Proprio questa centralità dell’immediato nel mondo attuale mina fortemente gli elementi della memoria del passato e la fiducia nel futuro che sono stati sinora “i ponti culturali e morali tra fugacità e durabilità” (p. 147) e “tra assunzione di responsabilità e filosofia del carpe diem” .  Francesco Giacomantonio

 

Baudrillard Jean, La trasparenza del male.

 ”La modernità è stata caratterizzata da una liberazione esplosiva in tutti i campi, afferma Baudrillard. Dopo la modernità viene il momento deltrans. Il momento in cui ogni categoria è contaminata da tutte le altre: il trans-estetico, iltrans-politico, il trans-sessuale, il trans-economicoecc.. Questa contaminazione rende ogni ambito sfuggente in quanto privato della propria particolarità, del proprio contesto di riferimento e del proprio referente. Tutto ciò genera incertezza ma paradossalmente, afferma Jean Baudrillard, tale incertezza deriva dalla scarsa presenza di negatività, di alterità e di zone d’ombra. Nei sistemi dipositivizzazione totale e di desimbolizzazione totale che secondo l’autore francese si vengono a formare nella società contemporanea, il Male consiste semplicemente in quell’avversità negata, in quell’antagonismo in via di estinzione, in quella reversibilità non più considerata. «Siamo diventati molto deboli quanto a energia satanica, ironica, polemica», scrive. In questo senso, spiega Baudrillard, solo i fenomeni estremi possono ancora toccarci e suscitare in noi vera attenzione sociale e culturale. Solo i fenomeni estremi possono ridestare in noi quel principio del Male che è principio vitale di squilibrio, vertigine e seduzione che, in nome di una chirurgia estetica del negativo e di un’igienizzazione totale, abbiamo accantonato.” Alessandro Chalambalakis

 

Gianni Vattimo,  La società trasparente,

La modernità, dice Vattimo, era quell’epoca per la quale l’esser moderno diventava un valore, anzi il valore fondamentale a cui tutti gli altri vengono riferiti. Si faceva strada un sempre più intenso culto per il nuovo, l’originale, che non esisteva nelle epoche precedenti. La storia umana era vista come un progressivo processo di emancipazione, con la sempre più perfetta realizzazione dell’uomo ideale. Tale definizione coincide con l’altra, e più diffusa, definizione del moderno, quella in termini di secolarizzazione. Era l’epoca che affermava sfere di valore profane e aveva fede nel progresso. La modernità finirà quando tutto questo crollerà. E questo capiterà con la filosofia tra Ottocento e Novecento che ha radicalmente criticato l’idea di progresso, di una storia unitaria, di una fiducia assoluta nella conoscenza oggettiva e scientifica, che erano conquiste della modernità, e quindi si parla oggi inevitabilmente di post-modernità o di post-moderno. In altre parole, l’età moderna è finita quando è finita la fiducia nel progresso, nella scienza, nella storia diretta verso un fine migliore. 
Ma non solo. Accanto alla fine del colonialismo e dell’imperialismo, un altro grande fattore è stato determinante per la dissoluzione dell’idea di storia e per la fine della modernità, ed è la avvento della società della comunicazione. Della nascita di una società post moderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media: la società in cui viviamo è una società della comunicazione generalizzata. La società post-moderna è la società dei mass media. Ed essa è caratterizzata dalla oscillazione, pluralità, in definitiva, dice Vattimo, dalla stessa erosione del principio di realtà. Non c’è più nulla di assolutamente certo, sicuro, evidente ma tutto è finzione, favola, cambiamento continuo. Si attua forse nel mondo dei mass media, dice Vattimo, una profezia di Nietzsche: il mondo vero alla fine diventa favola! (cfr. La società trasparente, p. 14). “Realtà, per noi, è piuttosto il risultato dell’incrociarsi, del “contaminarsi” (nel senso latino) delle molteplici immagini, interpretazioni, ri-costruzioni che, in concorrenza tra loro o comunque senza alcuna coordinazione “centrale”, i media distribuiscono” (ibid., p. 15). http://www.filosofiaedintorni.eu

 

Habermas Jurgen, il discorso filosofico della modernità

Il discorso filosofico della modernità si sviluppa molto tempo dono la nascita della filosofia moderna, dopo la critica della scolastica, dopo l’imporsi della nuova scienza dopo la Riforma, dopo la “Querelle des Anciens et des Modernes”, e persino dopo l’illuminismo come filosofia moderna per eccellenza. Non l’illuminismo e il moderno, ma la loro revisione dialettica (dunque, insieme, la loro critica e giustificazione) costituisce il discorso filosofico del moderno, che trova quindi il proprio atto di nascita in Hegel. È questa la prima tesi del libro di Habermas sul “Discorso filosofico della modernità”, è uscito in Germania nel 1985. “Hegel per primo eleva a problema filosofico quel processo di distacco della modernità dalle suggestioni normative del passato che non rientrano in essa” (p. 16). Scoprendosi finalmente come epoca, e soprattutto come quell’epoca che si pensa come tale (il che non è affatto ovvio n‚ comune a tutte le epoche), come emancipata dal passato e dai sistemi di riferimento della tradizione, cioè appunto riconoscendosi come ‘moderna’ in senso insieme ovvio e enfatico, la modernità si trova immediatamente presa in un vicolo cieco. Il moderno infatti non può che riferirsi a se stesso, pena il negarsi come moderno; il che vuole anche dire che nella modernità i soggetti sono interamente rimessi a sé, non possono riconoscere norme e valori se non nella struttura della propria autocoscienza. “Allora (…) si pone il problema se il principio della soggettività, e la struttura dell’autocoscienza ad essa immanente, siano sufficienti quale fonte di orientamenti normativi – se bastino non soltanto a ‘fondare’ scienza, morale ed arte in genere, bensì anche a rendere stabile una formazione storica che si è affrancata da tutti gli obblighi storici. Ora la questione è se dalla soggettività e dall’autocoscienza si possano acquisire criteri che siano desunti dal mondo moderno e al contempo siano adatti per orientarsi in esso; il che però vuoi anche dire: per criticare una modernità che non è in pace con se stessa” (p. 21). 
Se la soggettività è il principio dell’età moderna, proprio nella misura in cui il moderno non vuole riferirsi a altro che a sé, il problema della dialettica dell’illuminismo come critica e insieme come giustificazione del moderno si presenta come la questione della critica della soggettività, di un oltrepassamento di una ragione soggettocentrica di cui si riconoscono pienamente i limiti – ma un oltrepassamento che non può ripiegarsi sui modelli del passato, pena negarsi come moderno, e dunque come autentico oltrepassamento. Il concetto di spirito assoluto in Hegel sembra sintetizzare queste aporie: lo spirito soggettivo si conserva e si trascende nell’assoluto – ma l’assoluto cessa di essere inscritto nel tempo, dunque non è più moderno; e, d’altra parte, l’assoluto trattiene ancora in sé le tracce troppo umane del soggetto, vale a dire che la critica della soggettività è condotta qui a partire da una ragione soggettocentrica. 
Se si lascia da parte l’ingannevole soluzione di un auto-oltrepassamento della ragione soggettiva nello spirito assoluto, il discorso filosofico del moderno si avvita su se stesso. Dobbiamo criticare la soggettività in quanto limitata, spesso “irrazionale”, e sempre disposta a realizzarsi in forme autoritarie; ma come possiamo farlo, se non attraverso la ragione come organo della soggettività, cioè come autoriflessione del soggetto su se stesso? e i risultati di questa critica che cosa saranno, se non ancora una volta le astuzie della ragione soggettocentrica – cioè un rimedio che, se non è peggiore del male, quantomeno è uguale a esso? 
“Nel discorso della modernità i suoi accusatori le muovono un rimprovero, che nella sostanza non si è mai modificato da Hegel e Marx fino a Nietzsche e Heidegger, da Bataille e Lacan fino a Foucault e Derrida. L’accusa è diretta contro una ragione che si fonda nel principio della soggettività; ed afferma che questa ragione denuncia e scalza tutte le forme esplicite dell’oppressione e dello sfruttamento, della degradazione e dell’estraniazione, soltanto per istallare al loro posto il più inattaccabile dominio della razionalità stessa” (p. 57). 
Ben più di Marx, Nietzsche è il primo grande interprete di questo disagio. La critica della riflessione viene portata sino alle estreme conseguenze – quelle di negare la riflessione e il soggetto in cui questa si produce, per additare un al di là dell’umano troppo-umano nella volontà di potenza. Analogamente, all’apice della modernità, il moderno viene gettato da parte, nella ricerca delle origini della razionalità, per esempio nel mondo dionisiaco dei greci preclassici. Con un gesto che sarà destinato a ripetersi più volte nella storia del discorso filosofico del moderno, l’oltrepassamento delle angustie della modernità, della sua ragione e del suo soggetto, viene cercato in un passato immemorabile, non ancora contaminato da quel principio di ragione il cui primo imporsi (con la morte della tragedia) e la profezia delle aporie che si imporranno nella modernità ottocentesca. “Nietzsche adopera la scala della ragione storica per gettarla via alla fine, e mettere piede nel mito, nell’Altro della ragione (…) Per questa via i ‘tardivi’ della modernità che pensano antiquariamente devono divenire i ‘precursori’ di un’epoca postmoderna – un programma che Heidegger riprenderà in “Sein und Zeit”" (p. 89). 
Nietzsche “manda in congedo la dialettica dell’illuminismo” affidandosi al mito e alla volontà di potenza come altro (ma anche come essenza) della ragione soggettocentrica e strumentale. Horkheimer e Adorno si tengono invece disperatamente aggrappati alla dialettica dell’illuminismo, al principio secondo cui la ragione strumentale può essere criticata solo attraverso la ragione. Ma l’aporia non muta, visto che e semplicemente il rovescio speculare della posizione di Nietzsche: o si identifica la ragione con una teoria della potenza, con Nietzsche (e poi con Foucault), e allora ci si preclude la possibilità di qualsiasi critica dell’effettuale; oppure si mantiene uno spiraglio aperto alla critica, ma questa permane ineffettuale, proprio perché non può appellarsi a alcun principio globale per giustificare le proprie negazioni ad hoc. “Il tutto è falso”, o meglio è perverso, cioè totalitario e amministrativo; la ragione non può dunque che negare, di volta in volta, “coup par coup” ma questa negazione resta un sogno estetico, l’utopia di una redenzione che Si nega (perché se no si rivelerebbe come totalitaria), e un affetto inutile, perché soltanto leso, verso epoche tramontate e non ancora attraversate dalla lacerazione del moderno. (Ma Habermas, qui, non sviluppa fino in fondo l’ineffettualità della dialettica negativa, proprio perché continua a condividere con Horkheimer e Adorno almeno un presupposto, l’utopia – insieme postulata e negata – di una vita vera e di una comunicazione senza limiti n‚ costrizioni). 
L’accoppiata della critica della soggettività che mira a un al di là del soggetto, e della critica della modernità che mira a un al di là del moderno che di fatto è un regresso all’arcaico si ripropone invece con Heidegger e con Derrida. “Heidegger vorrebbe riprendere i motivi essenziali del messianismo dionisiaco di Nietzsche, sfuggendo però alle aporie di una critica della ragione che si riferisce a se stessa. Il Nietzsche che operava ‘scientificamente’ voleva ribaltare il pensiero moderno lungo le vie di una genealogia della fede nella verità e del) ideale ascetico; Heidegger, che in questa strategia di smascheramento basata sulla teoria del potere subodora un non eliminato residuo di illuminismo, si attiene piuttosto al Nietzsche ‘filosofo’. Lo scopo che Nietzsche perseguiva con una critica totalizzante e autodistruttiva della ideologia, Heidegger vuole raggiungerlo con una distruzione immanente della metafisica occidentale” (p. 101). “La filosofia del soggetto deve essere oltrepassata dalla concettualità altrettanto precisa e sistematica, ma anche più profonda, di un’ontologia esistenziale” (p. 147). Il vitalismo di Nietzsche, mediato attraverso le filosofie della vita di Bergson o di Dilthey, viene portato a una diversa levatura filosofica. In un clima culturale in cui la filosofia si riduceva ad ancella delle scienze dello spirito, Heidegger osò un colpo di mano destinato a una larghissima fortuna: quello di riproporre il problema eminentemente filosofico dell’ontologia, e di trasformare le aporie della dialettica moderna della critica del soggetto in una questione ben più densa e ampia, quella della storia della metafisica come origine delle aporie del moderno. Superare l’ ‘impasse’ della dialettica dell’illuminismo significa qui relativizzarla, mostrandola come l’esito modesto e caduco di una più fondamentale parabola storica, per cui l’imporsi della soggettività e della sua ragione come manipolazione strumentale degli enti è la causa delle aporie nichilistiche del moderno. Il discorso sull’essere che non è l’essere dell’ente costituisce dunque l’orizzonte entro cui il discorso filosofico della modernità si rivela come relativo e dipendente – e dunque anche oltrepassabile attraverso un salutare regresso: forse non abbiamo ancora incominciato a pensare, e se pensassimo davvero forse non ci troveremmo impigliati nella dialettica dell’illuminismo. Fra la teoria della potenza che esclude la critica, e la negazione determinata ad hoc che si consegna all’ineffettualità, si apre una terza via che in realtà è prima, più originaria e fondamentale. Anche la soggettività qui si rivela come un assoluto moderno, dunque come una variabile dipendente della storia della metafisica; la stessa contrapposizione soggetto-oggetto è già un esito dell’identificazione dell’essere con l’ente come oggetto disponibile per un soggetto. Una ermeneutica della tradizione che si ponga seriamente il problema dell’essere è già salva di fronte alle impasses della riflessione. E così pure, in Derrida, il linguaggio come veicolo della tradizione ci consente di superare la sfera della ragione soggettocentrica. Contro Husserl, “Derrida ora biasima a ragione che (…) il linguaggio Gene ridotto a quelle parti che sono adatte per la coscienza o per il discorso che constata i fatti. La 
logica mantiene il primato sulla grammatica, la funzione conoscitiva sulla funzione dell’intesa” (p. 176). “La ‘scrittura originaria’ rende possibile – per così dire senza intervento del soggetto trascendentale – e precedendo le operazioni di questo soggetto – le differenziazioni dischiudenti il mondo tra l’elemento intelligibile dei significati e l’elemento empirico che giunge a manifestarsi all’interno del suo orizzonte, fra il mondo e l’intramondano” (p. 181). Il primato della lettera sullo spirito diviene qui primato della scrittura sulla coscienza. La soluzione delle aporie della riflessione e della soggettività era, per così dire, già lì sotto gli occhi di tutti, nella tradizione metafisica trasmessa dalla scrittura: una idealità assoluta anteriore alla differenziazione tra soggetto e oggetto, che al tempo stesso tramanda le forme di pensiero del passato (permettendoci di relativizzare il nostro presente) e insieme, proprio in quanto è traccia scritta e non dialogo vivente, si presta a una infinita esegesi in cui il moderno può trovare le vie della propria emancipazione. 
Saltando a pie’ pari i capitoli su Bataille e su Foucault (che in buona sostanza, e con ottimi argomenti, riprendono la critica della teoria della potenza in Nietzsche, e sottolineano l’ “arbitraria partiticità di una critica che non può provare i suoi fondamenti” (p. 280), vorrei arrivare subito alle conclusioni. Habermas ha sicuramente buon gioco a criticare le teorie del potere in Foucault, o le teorie dell’estasi in Bataille, che si risolvono o nella mitizzazione di un Altro radicale rispetto alla ragione, oppure nella semplice sussunzione della razionalità nella economia più generale di quell’Altro (estasi, “dépense”, potere). 
Ma d’altra parte Habermas sembra non cogliere nel segno quando condanna la decostruzione heideggeriana e derridiana in base all’argomento secondo cui si tratterebbe di forme regressive di ritorno all’originario. 
In Heidegger (e soprattutto in Derrida, che se non altro per motivi anagrafici è distante dal ricorso heideggeriano al vitalismo, e allo stesso bisogno ontologico in quanto autenticità o originarietà) la decostruzione comporta anzitutto un momento procedurale, vale a dire quel vaglio storiografico dello sviluppo della metafisica il cui esito è il moderno e le sue contraddizioni di cui si diceva più sopra. Ma soprattutto ciò che pare problematico (qui come ovunque nella riflessione habermasiana) è la prospettiva teoretica che orienta la ricostruzione storiografica del moderno. Oltrepassare il soggettivismo moderno restando nel moderno significa, per Habermas, proporre un sistema di razionalità dialogica in cui il solipsismo monologico viene interrotto attraverso un agire orientato all’intesa che definisce di volta in volta gli standard di razionalità. Questo atteggiamento teoretico condivide con l’ontologia ermeneutica di Gadamer l’intrinseca debolezza insita nell’idealizzazione del dialogo (chi può assicurarci che i dialoghi siano fatti per intendersi razionalmente, e che non siano piuttosto determinati, poniamo, da una volontà di potenza che trasforma il dialogo in una ‘disputatio’ agonistica? e non si può neanche opporre a questo la considerazione secondo cui i dialoghi agonistici non possono accedere alla dignità filosofica del “Diskurs”: la sofistica è appunto il caso non eludibile di un discorso filosofico che si appoggia su basi agonistiche). 
Ma non solo Habermas condivide il punto debole dell’idea gadameriana di dialogo. Il fatto è che non può condividerne i punti di forza: per esempio, che noi sempre, bene o male, dialoghiamo, e quindi il dialogo non è certo un ottativo filosofico da proporsi come fine (e dunque bisognoso di giustificazione), ma piuttosto si presenta come ciò che ovviamente avviene appena incominciamo a parlare (così che non si tratta di giustificare il dialogo, n‚ di porlo come fine per la filosofia). Così pure, l’antitradizionalismo di Habermas gli preclude le risorse offerte dalla tradizione filosofica, che consentono di relativizzare il moderno, e il cerchio magico della dialettica dell’illuminismo. Habermas non prende mai definitivamente congedo dalla dialettica negativa, che pure in questo libro viene posta come una semplice figura della fenomenologia del moderno. Di qui per esempio il sospetto verso la filosofia (quel sospetto che indusse Horkheimer a parlare di “teoria critica” opponendola alla “teoria tradizionale”; e che spinge Habermas, qui come altrove, a demonizzare i ricorsi alla filosofia come moti conservatoristici): “Ciò che prima spettava alla filosofia trascendentale, cioè l’analisi intuitiva dell’autocoscienza, ora si inserisce nel circolo delle scienze ricostruttive, che dalla prospettiva di partecipanti a discorsi e interazioni cerca di rendere esplicito il sapere processuale preteoretico di soggetti che parlano, agiscono e conoscono con competenza”. Di qui anche il permanere della negazione ad hoc, che peraltro Habermas riconosceva come ineffettuale, e che pure si trasforma in una affermazione ad hoc che non pare fornire garanzie più solide: “La ricostruzione razionale ex Post si dedica al programma di render coscienti, ma si rivolge a sistemi anonimi di regole e non si riferisce a totalità”. Di qui, infine, il capovolgimento di prospettive per cui il ricorso storico-archeologico al passato come relativizzazione del presente – da Nietzsche a Derrida, passando per Heidegger e Gadamer -si trasforma in Habermas in una propensione utopica verso il futuro – un futuro che si nega come totalità, e quindi si nasconde, ma che mantiene una funzione normativa tanto più forte quanto più è implicita, orientando la teleologia della ragione secondo Habermas: “Noi chiamiamo ‘razionalità’ anzitutto quella disposizione di soggetti capaci di parlare e di agire ad acquisire ed impiegare un sapere fallibile” .   Maurizio Ferraris