Sulla complessità
Cosa è la complessità?
Nei dizionari la definizione di complesso è alquanto simile: Istituto della Enciclopedia Treccani: “Che risulta dall’unione di più parti o elementi”) , in altri: “Ciò che è composto da più di una cosa, ovvero di molte parti”, G. Devoto : modo di essere o di presentarsi (dovuto generalmente a profondità, minuziosità, disposizione o svolgimento necessariamente complicati) che rende difficile l’orientamento o la comprensione: la complessità di un ragionamento, di una situazione.
La complessità, a mio avviso, è tutto quanto è presente oggi nella nostra vita, nella nostra immaginazione, nei nostri sogni, nei nostri pensieri nel nostro rapporto con la scienza e la natura, nel nostro vivere quotidiano, nel nostro modo di pensare e di rapportarci con gli altri, la complessità in altri termini è un insieme di sistemi che coesistono con il nostro vivere quotidiano.
Così concepita, la nozione di complessità implica il riferimento a una logica di funzionamento e di sviluppo del pensiero sulla quale intervengono anche il caos ed il disordine, l’arbitrario, la non determinazione, non come fattori limitanti ma piuttosto come elementi di un’organizzazione più completa. In altri termini, la complessità non è un limite, ma un nuovo modello categoriale che respinge il mito di una perfezione onnicomprensiva e definitiva.
Complessità è anche interconnessione, nel senso che il nostro essere è legato a tutti i fattori che si svolgono intorno a noi ed a cui le nostre attività sono interconnesse, con l’effetto che una piccola variazione si propaga ed influisce anche su punti lontanissimi (Gottfried Leibniz affermava: tutto è connesso, il minimo cambiamento estende il suo effetto a qualunque distanza), ed allora un fatto comune, come sbagliare strada oppure perdere il treno o l’aereo, può cambiare totalmente la vita di ognuno di noi, in una esistenza che varia continuamente e vorticosamente, con l’incertezza che diventa elemento cardine e determinante.
Alla complessità inoltre possono essere, per alcuni tratti, associate le idee che riguardano il cosiddetto pensiero debole.
Il pensiero debole si presenta sostanzialmente come crisi irreversibile delle basi cartesiane e razionaliste del modo di costruire il pensare, stravolgendo quindi il pensiero filosofico così come si era sviluppato durante l’età moderna.Questa affermazione diventa per me utile e speculativa per fare i miei ragionamenti sulla complessità.
La tendenza filosofica del pensiero debole si afferma a partire dalla metà del XX secolo e disserta su un importante mutamento nel modo di concepire la filosofia. Questo mutamento, introdotto secondo Gianni Vattimo dall’opera di pensatori come friedrich Nietzsche e Martin Heidegger, è caratterizzato dal cadere di numerosi presupposti fondanti della filosofia classica e della tradizione filosofica occidentale. Inoltre la stessa tradizione filosofica occidentale che si è formata nel post umanesimo rinascimentale e si è consolidata nell’illuminismo ha influito sulla scienza e sulla vita della collettività intera ed ha decretato la nascita della scienza moderna che si identifica con una precisa scelta di indagine e di studio: quella di rinunciare a studiare l’insieme organico per soffermarsi su fenomeni semplici e quantificabili, isolandoli dal contesto globale del vivere e dalle relazioni con altri campi.
Il nuovo pensiero filosofico classico, Opera simbolo di questo nuovo modo di interpretare l’architettura si potrebbe indicare nella fabbrica di Santa Maria della Consolazione con figure geometriche e relativi solidi assemblati e giustapposti senza una reale connessione tra loro.
Si tratta, in altre parole , di procedere smontando un sistema complesso e riducendolo a tante singole parti, sufficientemente piccole da poter essere ben capite nei loro processi evolutivi e descritte da leggi matematiche semplici. Il progetto della fabbrica non ha una paternità definita, ma nel suo percorso si incontrano i nomi di Donato Bramante, Baldassarre Peruzzi, Antonio da Sangallo il Giovane, Gaelazzo Alessi e Michele Sanmicheli , tutti architetti che hanno veicolato la costruzione dell’architettura nei secoli successivi fino ad arrivare alla nostra specifica e particolare situazione italiana.
Questo atteggiamento strutturale, che si afferma in filosofia con il nome di riduzionismo, è però anche all’origine dei più impressionanti progressi nella storia della conoscenza dell’uomo: in poco più di due secoli si scoprirono le leggi della gravitazione che regolano il moto dei pianeti, le leggi della termodinamica, le equazioni dell’elettromagnetismo che stanno alla base dell’elettrotecnica, dell’ottica e delle moderne telecomunicazioni, per finire – all’inizio del secolo successivo – con la relatività e la fisica quantistica che ci svelavano il comportamento profondo della materia, ma anche la storia dell’universo dal big-bang ad oggi. Il riduzionismo ha naturalmente prodotto grandi successi ma senza sintesi, successi che non interagiscono: scorporati, distanti, in contenitori chiusi ed incomunicabili, non hanno alcun rapporto tra loro. Oggi in un certo qual modo continuiamo in questa ottica rinascimentale: viviamo nell’epoca della superspecializzazione. La conoscenza esplode, i saperi si moltiplicano e la corsa alla specializzazione pare quindi un fatto inevitabile. Le scuole, i corsi di insegnamento, si dividono sempre più con la conseguenza altrettanto inevitabile dell’avanzamento dell’ottusità, dilagante e pervasiva in ogni settore della società.
In tal quadro le scuole di architettura in Italia sono, in un certo qual modo, totalmente umanistico-rinascimentali chiuse nelle loro ottusità.
Mi riferisco all’ottusità che non avrebbe dovuto esserci e che forse avrebbe potuto non esserci, quella della formazione e delle istituzioni. Un’ottusità che deriva dall’idea che gli studi si possano spezzettare in compartimenti separati e privi di sintesi ed unione, si possa dividere impunemente il pensiero dalla realtà, il corpo dalla mente, la mano dal pensiero; un’ottusità che pone la conoscenza come qualcosa che possa essere edificata su due pilastri indipendenti, quello della cultura scientifica e quello della cultura umanistica.
Vi propongo degli interrogativi:
In quante scuole di architettura si insegna a pensare allo spazio come qualcosa che riguarda propriamente l’uomo ed il rapporto tra questo e la natura?
In quali corsi è stato mai rappresentato lo spazio come elemento da vivere e non da rappresentare?
E’ possibile portare nelle scuole di architettura i presupposti prima citati dell a complessità e del caos?
E’ legittimo infine pensare ad una scuola che sperimenta forme ed approcci transdisciplinari autoescludendosi dalla formazione professionale?
La suddivisione netta in “settori scientifico-disciplinari” delle nostre facoltà di architettura, del lavoro in aree di competenza, del mercato in settori, conduce alla stagnazione nei singoli ambiti, all’incapacità di innovare e, in generale, all’impossibilità di risolvere i grandi problemi posti oggi dalla complessità, che sono sempre di natura non multidisciplinare ma transdisciplinare. Se le facoltà di architettura non abbandonano l’ottica rinascimentale-illuministica del pensare per comparti resteranno sempre più distanti dalla ricerca e diventeranno sempre più marginali. Non voglio affermare che la ricerca deve necessariamente oppure totalmente essere fatta a scuola perché questa deve rivestire una forma più privata e demandata alle singole esperienze ed esigenze, ma è altrettanto vero che le scuole in Italia si sono totalmente impoverite con la mediocrità che risulta essere elemento caratterizzante in una situazione generalizzata: se da una parte si posizionano distanti ed avulse dalla sperimentazione e dalla ricerca, dall’altra si vedono deficitarie anche per quanto riguarda la semplice formazione professionale. Il problema è che nell’era della elettronica e della globalizzazione i deficit aumentano sempre più in modo esponenziale e le distanze risultano sempre più incolmabili, ma sembra che nessuno se ne renda conto o meglio non interessa a nessuno perché il livello occupazionale ed il puro mantenimento del posto di lavoro è la sola cosa che viene discussa e presa in considerazione in ambito universitario.
Non è certamente un bel quadro e non è foriero di future buone notizie: le scuole di architettura italiane hanno certamente svolto il loro ruolo fin quanto erano accademie perché erano pienamente inserite nella logica dell’insegnamento prima definito “rinascimentale-illuministico” ma non lo possono più essere perché viviamo in un’epoca che ha esautorato e spazzato ormai via quel tipo di approccio culturale. E’ necessario e pressante trovare nuovi riferimenti e la complessità potrebbe essere il punto di partenza per le idee da sviluppare all’alba del terzo millennio.
Parlare di complessità significa necessariamente delinearne i contorni e l’epoca entro cui si sviluppa, la contrapposizione ma anche la continuità con il periodo che lo ha preceduto.
Trovo stimolante la definizione complessità-caos data da Mitchell Waldrop nel suo libro Complexity : «L’orlo del caos è dove la vita ha trovato abbastanza stabilità per sostenersi e abbastanza creatività per meritare il nome di vita. L’orlo del caos è dove nuove idee e genotipi innovativi rosicchiano continuamente il bordo dello status quo; e dove anche la più radicata vecchia guardia sarà, presto o tardi, rovesciata».
Se provassimo per un attimo a fare un paragone tra l’epoca che scaturisce dalla modernità postrinascimentale di cui prima si è parlato e la nostra attuale epoca che possiamo definire postmoderna, dobbiamo senza dubbio affermare che l’attuale epoca sviluppa la complessità in quanto è totalmente caratterizzata dalla/nella globalizzazione, dalla/nella accelerazione del tempo, dalla/nell’annulamento delle distanze con la video-comunicazione istantanea, dalla/nell’inserimento nella società di valenze relative a multi…,meta…,post…,pluri…,trans…,
In tal senso la complessità è un sistema che opera all’interno di sistemi ancora più ampi. Nel nostro specifico architettonico la complessità interagisce con sistemi dalle dimensioni plurime, dall’ordine di scala alla dimensione frattale ed algoritmica:
- Complessità in fisica: meteorologia ed evoluzione delle nuvole, idrodinamica (entrambe indagate da Leonardo), astrofisica.
- Complessità in chimica: formazioni di strutture spazio temporali con nuove bio-molecole (le architetture continue ed auto-generate di John Johansen).
- Complessità in biologia: cellule ed organismi cellulari, muschi licheni e strutture complesse (avvertenza di Leonardo a tener conto delle muffe, delle puzze, dei profumi e degli odori nella composizione dello spazio)
- Complessità in cibernetica: organizzazione cibernetica, computer in rete ( ciber-spazio ed architettura evolutiva).
- Complessità in psico-sociologia: modelli relazionali tra singoli e gruppi, socio-cibernetici, comportamenti della mente, immaginazione e sogno, necessità di dare un’interpretazione operativa dei fenomeni sociali, cioè capace di autotrasformarsi e scomporsi in sottosistemi dotati di autonomia, e sfuggenti a ogni pianificazione razionale dell’uomo.
- Complessità in filosofia: argomentazioni sul pensiero debole da contrapporre al pensiero forte.
- Complessità nelle reti: rete dell’informazione e dell’intelligenza artificiale.
- Complessità architettonico-spaziale: solo una. La caverna come sintesi spazio temporale della costruzione dello spazio. L’uomo abita la caverna per 150.000 anni e riesce totalmente ad affrancarsi da qualsiasi mediazione intellettualistica. Lo spazio della caverna appartiene alla natura ed alla terra stessa, non ha pareti o pavimento perché è essa stessa spazio, è comunitaria e sintesi totale della attività umana.
Tutte queste complessità possono far capo ad un unico sistema “complessivo della complessità” o sistema del caos per cui si può stabilire una reciproca complementarietà tra cibernetica, fisica e chimica, tra filosofia, psicologia e reti, tra equilibrio e disequilibrio, tra realtà e sogno, tra ordine e disordine caotico dove il semplice effetto del battito di ali della farfalla di Lorenz con il relativo spostamento delle molecole può produrre effetti abnormi in ambiti spazio-temporali diversi. In modo alquanto più sofisticato Alan Turing spiega nel suo Macchine calcolatrici ed intelligenza: “Lo spostamento di un singolo elettrone per un miliardesimo di centimetro, a un momento dato, potrebbe significare la differenza tra due avvenimenti molto diversi, come l’uccisione di un uomo un anno dopo, a causa di una valanga, o la sua salvezza”.
C’è un piccolo pezzo di Gianni Rodari che forse inconsapevolmente analizza questi temi:
“Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla sua superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore. Oggetti che se ne stavano ciascuno per conto proprio, nella sua pace o nel suo sonno, sono come richiamati in vita, obbligati a reagire, a entrare in rapporto tra loro. Altri movimenti invisibili si propagano in profondità, in tutte le direzioni, mentre il sasso precipita smuovendo le alghe, spaventando pesci, causando sempre nuove agitazioni molecolari. Quando poi tocca il fondo, sommuove la fanghiglia, urta gli oggetti che vi giacevano dimenticai, alcuni dei quali ora vengono dissepolti, altri ricoperti a turno dalla sabbia. Innumerevoli eventi, o microeventi, si succedono in un tempo brevissimo. Forse nemmeno ad aver tempo e voglia si potrebbero registrare tutti, senza omissioni.”
Di contro le scuole di architettura sono estranee a questi problemi, arrancano, coloro che insegnano dovrebbero ridiventare studenti e cercare di capire cosa succede nelle diverse discipline che interagiscono con i loro stessi insegnamenti ma tutti sono disattenti, frustrati ed unicamente occupati al puro mantenimento dello status quo.