Mino Rosso. Scultura

FONDAZIONE E MANIFESTO DEL FUTURISMO

Pubblicato dal “Figaro” di Parigi

il 20 febbraio 1909

Avevamo vegliato tutta la notte – i miei amici ed io – sotto lampade di moschea dalle cupole di ottone traforato, stellate come le nostre anime, perché come queste irradiate dal chiuso fulgòre di un cuore elettrico. Avevamo lungamente calpestata su opulenti tappeti orientali la nostra atavica accidia, discutendo davanti ai confini estremi della logica ed annerendo molta carta di frenetiche scritture.

Un immenso orgoglio gonfiava i nostri petti, poiché ci sentivamo soli, in quell’ora, ad esser desti e ritti, come fari superbi o come sentinelle avanzate, di fronte all’esercito delle stelle nemiche, occhieggianti dai loro celesti accampamenti. Soli coi fuochisti che s’agitano davanti ai forni infernali delle grandi navi, soli coi neri fantasmi che frugano nelle pance arroventate delle locomotive lanciate a pazza corsa, soli cogli ubriachi annaspanti, con un incerto batter d’ali, lungo i muri della città.

Sussultammo ad un tratto, all’udire il rumore formidabile degli enormi tramvai a due piani, che passano sobbalzando, risplendenti di luci multicolori, come i villaggi in festa che il Po straripato squassa e sràdica d’improvviso, per trascinarli fino al mare, sulle cascate e attraverso i gorghi di un diluvio.Poi il silenzio divenne più cupo. Ma mentre ascoltavamo l’estenuato borbottìo, di preghiere del vecchio canale e lo scricchiolar dell’ossa dei palazzi moribondi sulle loro barbe di umida verdura, noi udimmo subitamente ruggire sotto le finestre gli automobili famelici.

- Andiamo, diss’io; andiamo, amici! Partiamo! Finalmente, la mitologia e l’ideale mistico sono superati. Noi stiamo per assistere alla nascita del Centauro e presto vedremo volare i primi Angeli!…Bisognerà scuotere le porte della vita per provarne i cardini e i chiavistelli!

Partiamo! Ecco, sulla terra, la primissima aurora! Non v’è cosa che agguagli lo splendore della rossa spada del sole che schermeggia per la prima volta nelle nostre tenebre millenarie!…

Ci avvicinammo alle tre belve sbuffanti, per palparne amorosamente i torridi petti. Io mi stesi sulla mia macchina come un cadavere nella bara, ma subito risuscitai sotto il volante, lama di ghigliottina che minacciava il mio stomaco.

La furente scopa della pazzia ci strappò a noi stessi e ci cacciò attraverso le vie, scoscese e profonde come letti di torrenti. Qua e là una lampada malata, dietro i vetri d’una finestra, c’insegnava a disprezzare la fallace matematica dei nostri occhi perituri.

Io gridai: – Il fiuto, il fiuto solo, basta alle belve!

E noi, come giovani leoni, inseguivamo la Morte, dal pelame nero maculato di pallide croci, che correva via pel vasto cielo violaceo, vivo e palpitante.

Eppure non avevamo un’Amante ideale che ergesse fino alle nuvole la sua sublime figura, né una Regina crudele a cui offrire le nostre salme, contorte a guisa di anelli bizantini! Nulla, per voler morire, se non il desiderio di liberarci finalmente dal nostro coraggio troppo pesante!

E noi correvamo schiacciando su le soglie delle case i cani da guardia che si arrotondavano, sotto i nostri pneumatici scottanti, come solini sotto il ferro da stirare.

La Morte, addomesticata, mi sorpassava ad ogni svolto, per porgermi la zampa con grazia, e a quando a quando si stendeva a terra con un rumore di mascelle stridenti, mandandomi, da ogni pozzanghera, sguardi vellutati e carezzevoli.

- Usciamo dalla saggezza come da un orribile guscio, e gettiamoci, come frutti pimentati d’orgoglio, entro la bocca immensa e tôrta del vento!…

Diamoci in pasto all’Ignoto, non già per disperazione, ma soltanto per colmare i profondi pozzi dell’Assurdo!

Avevo appena pronunziate queste parole, quando girai bruscamente su me stesso, con la stessa ebrietà folle dei cani che voglion mordersi la coda, ed ecco ad un tratto venirmi incontro due ciclisti, che mi diedero torto, titubando davanti a me come due ragionamenti, entrambi persuasivi e nondimeno contradittorii.

Il loro stupido dilemma discuteva sul mio terreno…Che noia! Auff!…Tagliai corto, e, pel disgusto, mi scaraventai colle ruote all’aria in un fossato…

Oh! materno fossato, quasi pieno di un’acqua fangosa! Bel fossato d’officina! Io gustai avidamente la tua melma fortificante, che mi ricordò la santa mammella nera della mia nutrice sudanese…Quando mi sollevai – cencio sozzo e puzzolente – di sotto la macchina capovolta, io mi sentii attraversare il cuore, deliziosamente, dal ferro arroventato della gioia!

Una folla di pescatori armati di lenza e di naturalisti podagrosi tumultuava già intorno al prodigio. Con cura paziente e meticolosa, quella gente dispose alte armature ed enormi reti di ferro per pescare il mio automobile, simile ad un gran pescecane arenato.

La macchina emerse lentamente dal fosso, abbandonando nel fondo, come squame, la sua pesante carrozzeria di buon senso e le sue morbide imbottiture di comodità.

Credevano che fosse morto, il mio bel pescecane, ma una mia carezza bastò a rianimarlo, ed eccolo risuscitato, eccolo in corsa, di nuovo, sulle sue pinne possenti!

Allora, col volto coperto della buona melma delle officine – impasto di scorie metalliche, di sudori inutili, di fuliggini celesti – noi, contusi e fasciate le braccia ma impavidi, dettammo le nostre prime volontà a tutti gli uomini vivi della terra:

 

Manifesto del Futurismo

1. Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità.

2. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.

3. La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.

4. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità. Un automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo…un automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia.

5. Noi vogliamo inneggiare all’uomo che tiene il volante, la cui asta ideale attraversa la Terra, lanciata a corsa, essa pure, sul circuito della sua orbita.

6. Bisogna che il poeta si prodighi, con ardore, sfarzo e munificenza, per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali.

7. Non v’è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all’uomo.

8. Noi siamo sul promontorio estremo dei secoli!…Perché dovremmo guardarci alle spalle, se vogliamo sfondare le misteriose porte dell’Impossibile? Il Tempo e lo Spazio morirono ieri. Noi viviamo già nell’assoluto, poiché abbiamo già creata l’eterna velocità onnipresente.

9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertarî, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.

10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.

11. Noi canteremo le grandi folle agitate dal lavoro, dal piacere o dalla sommossa: canteremo le maree multicolori o polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali moderne; canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche; le stazioni ingorde divoratrici di serpi che fumano; le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi; i ponti simili a ginnasti giganti che scavalcano i fiumi, balenanti al sole con un luccichio di coltelli; i piroscafi avventurosi che fiutano l’orizzonte, le locomotive dall’ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d’acciaio imbrigliati di tubi, e il volo scivolante degli aeroplani, la cui elica garrisce al vento come una bandiera e sembra applaudire come una folla entusiasta.

E’ dall’Italia, che noi lanciamo pel mondo questo nostro manifesto di violenza travolgente e incendiaria, col quale fondiamo oggi il “Futurismo”, perché vogliamo liberare questo paese dalla sua fetida cancrena di professori, d’archeologhi, di ciceroni e d’antiquarii.

Già per troppo tempo l’Italia è stata un mercato di rigattieri. Noi vogliamo liberarla dagl’innumerevoli musei che la coprono tutta di cimiteri innumerevoli. Musei: cimiteri!…Identici, veramente, per la sinistra promiscuità di tanti corpi che non si conoscono. Musei: dormitorî pubblici in cui si riposa per sempre accanto ad esseri odiati o ignoti! Musei: assurdi macelli di pittori e scultori che vanno trucidandosi ferocemente a colpi di colori e di linee, lungo le pareti contese!

Che ci si vada in pellegrinaggio, una volta all’anno, come si va al Camposanto nel giorno dei morti…ve lo concedo. Che una volta all’anno sia deposto un omaggio di fiori davanti alla Gioconda, ve lo concedo…Ma non ammetto che si conducano quotidianamente a passeggio per i musei le nostre tristezze, il nostro fragile coraggio, la nostra morbosa inquietudine. Perché volersi avvelenare? Perché volere imputridire?

E che mai si può vedere, in un vecchio quadro, se non la faticosa contorsione dell’artista, che si sforzò di infrangere le insuperabili barriere opposte al desiderio di esprimere interamente il suo sogno?…Ammirare un quadro antico equivale a versare la nostra sensibilità in un’urna funeraria, invece di proiettarla lontano, in violenti getti di creazione e di azione.

Volete dunque sprecare tutte le forze migliori, in questa eterna ed inutile ammirazione del passato, da cui uscite fatalmente esausti, diminuiti e calpesti?

In verità io vi dichiaro che la frequentazione quotidiana dei musei, delle biblioteche e delle accademie (cimiteri di sforzi vani, calvarii di sogni crocifissi, registri di slanci troncati…) è per gli artisti, altrettanto dannosa che la tutela prolungata dei parenti per certi giovani ebbri del loro ingegno e della loro volontà ambiziosa. Per i moribondi, per gl’infermi, pei prigionieri, sia pure: – l’ammirabile passato è forse un balsamo ai loro mali, poiché per essi l’avvenire è sbarrato… Ma noi non vogliamo più saperne, del passato, noi, giovani e forti futuristi!

E vengano dunque, gli allegri incendiarii dalle dita carbonizzate! Eccoli!

Eccoli!…Suvvia! date fuoco agli scaffali delle biblioteche!…Sviate il corso dei canali, per inondare i musei!…Oh, la gioia di veder galleggiare alla deriva, lacere e stinte su quelle acque, le vecchie tele gloriose!… .Impugnate i picconi, le scuri, i martelli e demolite senza pietà le città venerate!

I più anziani fra noi, hanno trent’anni: ci rimane dunque almeno un decennio, per compier l’opera nostra. Quando avremo quarant’anni, altri uomini più giovani e più validi di noi, ci gettino pure nel cestino, come manoscritti inutili – Noi lo desideriamo!

Verranno contro di noi, i nostri successori; verranno di lontano, da ogni parte, danzando su la cadenza alata dei loro primi canti, protendendo dita adunche di predatori, e fiutando caninamente, alle porte delle accademie, il buon odore delle nostre menti in putrefazione, già promesse alle catacombe delle biblioteche.

Ma noi non saremo là…Essi ci troveranno alfine – una notte d’inverno – in aperta campagna, sotto una triste tettoia tamburellata da una pioggia monotona, e ci vedranno accoccolati accanto ai nostri aeroplani trepidanti e nell’atto di scaldarci le mani al fuocherello meschino che daranno i nostri libri d’oggi fiammeggiando sotto il volo delle nostre immagini.

Essi tumultueranno intorno a noi, ansando per angoscia e per dispetto, e tutti, esasperati dal nostro superbo, instancabile ardire, si avventeranno per ucciderci, spinti da un odio tanto più implacabile inquantoché i loro cuori saranno ebbri di amore e di ammirazione per noi.

La forte e sana Ingiustizia scoppierà radiosa nei loro occhi. – L’arte, infatti,

non può essere che violenza, crudeltà ed ingiustizia.

I più anziani fra noi hanno trent’anni: eppure, noi abbiamo già sperperati tesori, mille tesori di forza, di amore, d’audacia, d’astuzia e di rude volontà; li abbiamo gettati via impazientemente, in furia, senza contare, senza mai esitare, senza riposarci mai, a perdifiato…Guardateci! Non siamo ancora spossati! I nostri cuori non sentono alcuna stanchezza, poiché sono nutriti di fuoco, di odio e di velocità!…Ve ne stupite?…E’ logico, poiché voi non vi ricordate nemmeno di aver vissuto! Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!

Ci opponete delle obiezioni?…Basta! Basta! Le conosciamo…Abbiamo capito!…La nostra bella e mendace intelligenza ci afferma che noi siamo il riassunto e il prolungamento degli avi nostri.

- Forse!…Sia pure!…Ma che importa? Non vogliamo intendere!…Guai a chi ci ripeterà queste parole infami!…

Alzare la testa!… Ritti sulla cima del mondo, noi scagliamo, una volta ancora, la nostra sfida alle stelle!…

 

 

Angiolo Mazzoni   Centrale termica  Stazione di Firenze definita “orrendo baraccone tinto di rosso”

Virgilio Marchi

Virgilio Marchi

LA “DIVINA COMMEDIA”

è un verminaio di glossatori

Il Futurismo non ammette né leggi, né codici, né magistrati, né poliziotti, né lenoni, né eunuchi moralisti. Il Futurismo è una frusta colla quale noi rinsanguiamo quotidianamente il viso dei vigliacchi d’Italia. Il Futurismo è una dinamite crepitante sotto le rovine del passato.Frusta o dinamite.

Non basta! Noi imponiamo al mondo ben altro! Noi vogliamo creare il contagio del coraggio e l’abbiamo già creato. Più volte vedemmo nostri nemici tenderci subitamente le braccia, acclamandoci con le stesse labbra che ci avevan fischiati.

Quei moribondi avvelenati da un’epidemica viltà furono presi dalla incendiante ebbrezza del nostro eroismo. Forse videro splendere nei nostri occhi la gloriosa passione che nutriamo per l’Arte.All’arte infatti, che merita ed esige il sacrificio dei migliori, noi diamo un amore assoluto, non confortato dall’obbrobriosa speranza dell’immortalità, sogno d’anime usuraie, spregevole quanto il calcolato Paradiso cristiano.

Noi vogliamo che l’opera d’arte sia bruciata col cadavere del suo autore. Ciò che sopravvive del Genio spento non ammorba forse di nostalgia,di prudenza e di paurosa saggezza il Genio vivente?

Chi negherà che la Divina Commedia altro non sia oggi che un immondo verminaio di glossatori? A che pro avventurarsi sui campi di battaglia del pensiero quando la mischia è finita, per numerare i morti, studiare le belle ferite, raccogliere le armi infrante e i bottini abbandonati, sotto il volo pesante dei corvi dotti e il loro sbatacchiar d’ali cartacee?

Il Futurismo è un gran masso di metalli incandescenti, che abbiamo con le nostre mani divelto dalle profondità d’un vulcano, e con le nostre mani sollevato verso il cielo.

Ed ora camminiamo stretti, alzate le braccia, reggendolo fra le nostre mani carbonizzate, su per l’ascesa scabra, e mescoliamo i nostri fiati solidali, e non guardiamo se alcuno di noi superi gli altri per la forza dei muscoli e l’ampiezza dei polmoni instancabili. Che importa se le nostre orme vengono continuamente cancellate da coloro che ci seguono? Solo ci esalta il pensiero di non lasciar cadere a terra il gran masso rovente che vogliamo portare sulla cima eccelsa del pensiero umano, perché il mondo abbia più febbre di novità, più fuoco di violenza, più luce d’eroismo, più amore di libertà!..

 

 

LO SPLENDORE GEOMETRICO E MECCANICO E LA SENSIBILITA’ NUMERICA

Milano 18 marzo 1914

Noi sbrigammo già il funerale grottesco della Bellezza passatista (romantica, simbolista e decadente) che aveva per elementi essenziali il ricordo, la nostalgia, la nebbia di leggenda prodotta dalle distanze di tempo, il fascino esotico prodotto dalle distanze di spazio, il pittoresco, l’impreciso, l’agreste, la solitudine selvaggia, il disordine multicolore, la penombra crepuscolare, la corrosione, il logorio, le sudicie traccie degli anni, lo sgretolarsi delle rovine, la muffa, il sapore della putrefazione, il pessimismo, la tisi, il suicidio, le civetterie dell’agonia, l’estetica dell’insuccesso, l’adorazione della morte.

Dal caos delle nuove sensibilità contradittorie, nasce oggi una nuova bellezza che, noi Futuristi, sostituiremo alla prima, e che io chiamo Splendore geometrìco e meccanico.

Questo ha per elementi essenziali: l’igienico oblio, la speranza, il desiderio, la forza imbrigliata, la velocità, la luce, la volontà, l’ordine, la disciplina, il metodo; il senso della grande città; l’ottimismo aggressivo che risulta dal culto dei muscoli e dello sport; l’immaginazione senza fili, l’ubiquità, il laconismo e la simultaneità che derivano dal turismo, dall’affarismo e dal giornalismo; la passione per il successo, il nuovissimo istinto del record, l’entusiastica imitazione dell’elettricità e della macchina; la concisione essenziale e la sintesi; la precisione felice degl’ingranaggi e dei pensieri bene oliati; la concorrenza di energie convergenti in una sola traiettoria vittoriosa.

I miei sensi futuristi percepirono per la prima volta questo splendore geometrico sul ponte di una dreadnought. Le velocità della nave, le distanze dei tiri fissate dall’alto del cassero nella ventilazione fresca delle probabilità guerresche, la vitalità strana degli ordini trasmessi dall’ammiraglio e subitamante divenuti autonomi, non più umani, attraverso i capricci, le impazienze e le malattie dell’acciaio e del rame: tutto ciò irradiava splendore geometrico e meccanico. Sentii l’iniziativa lirica dell’elettricità correre attraverso il blindaggio delle torri quadruple, scendere per tubi blindati fino alla santabarbara, traendone gli obici fino alle culatte, fino alle volate emergenti. Mira in altezza, in direzione, alzo, fiamma, rinculo automatico, slancio personalissimo del proiettile, urto, sconquasso, odore di uova fradice, gas mefitici, ruggine, ammoniaca, ecc. Questo nuovo dramma pieno d’imprevisto futurista e di splendore geometrico, è per noi centomila volte più interessante della psicologia dell’uomo, con le sue combinazioni limitatissime.

Le grandi collettività umane, maree di faccie e di braccia urlanti, possono talvolta darci una leggiera emozione. Ad esse, noi preferiamo la grande solidarietà dei motori preoccupati, zelanti e ordinati. Nulla è piu bello di una grande centrale elettrica ronzante che contiene la pressione idraulica di una catena di monti e la forza elettrica di un vasto orizzonte, sintetizzate nei quadri marmorei di distribuzione, irti di contatori, di tastiere e di commutatori lucenti. Questi quadri sono i nostri soli modelli in poesia. Abbiamo come precursori i ginnasti e gli equilibristi, che realizzano negli sviluppi, nei riposi e nelle cadenze delle loro muscolature quella perfezione scintillante d’ingranaggi precisi, e quello splendore geometrico che noi vogliamo raggiungere in poesia colle parole in libertà.

1. Noi distruggiamo sistematicamente l’Io letterario perché si sparpagli nella vibrazione universale, e giungiamo ad esprimere l’infinitamente piccolo e le agitazioni molecolari. Es.: Fulmineo agitarsi di molecole nel buco prodotto da un obice (ultima parte di Forte Cheittam-Tépé, nel mio ZANG TUMB TUMB). La poesia delle forze cosmiche soppianta così la poesia dell’umano. Vengono abolite le antiche proporzioni (romantiche, sentimentali e cristiane) del racconto, secondo le quali un ferito in battaglia aveva una importanza esageratissima in confronto degli strumenti di distruzione delle posizioni strategiche e delle condizioni atmosferiche. Nel mio poema ZANG TUMB TUMB io descrivo la fucilazione di un traditore bulgaro con poche parole in libertà, mentre prolungo una discussione di due generali turchi sulle distanze di tiro e sui cannoni avversarii Notai infatti nella batteria De Suni, a Sidi-Messri, nell’ottobre 1911, come la volata lucente e aggressiva di un cannone arroventato dal sole e dal fuoco accelerato renda quasi trascurabile lo spettacolo della carne umana straziata e morente.

2. Ho più volte dimostrato come il sostantivo, sciupato dai molteplici contatti o dal peso degli aggettivi parnassiani e decadenti, riacquisti il suo assoluto valore e la sua forza espressiva quando vien denudato e isolato. Fra i sostantivi nudi, io distinguo il sostantivo elementare e il sostantivo sintesi-moto (o nodo di sostantivi). Questa distinzione non assoluta, risulta da intuizioni quasi inafferrabili. Secondo un’analogia elastica e comprensiva, vedo ogni sostantivo come un vagone o come una cinghia messa in moto dal verbo all’infinito.

3. Salvo bisogni di contrasti o di mutamento di ritmi, i diversi modi e tempi del verbo devono essere aboliti poiché essi fanno del verbo una ruota sgangherata di diligenza che si adatta alle scabrosità delle strade di campagna, ma non può girare velocemente su una strada liscia. Il verbo all’infinito, invece, è il moto stesso del nuovo lirismo, avendo la scorrevolezza di una ruota di treno, o di un’elica d’aeroplano. I diversi modi e tempi del verbo esprimono un pessimismo prudente e rassicurante, un egotismo ristretto, episodico, accidentale , un alto e basso di forza e di stanchezza, di desiderio e di delusione, delle soste, insomma, nello slancio della speranza e della volontà. Il verbo all’infinito esprime l’ottimismo stesso,la generosità assoluta e la follia del Divenire. Quando io dico: correre, qual’è il soggetto di questo verbo? Tutti e tutto: cioè irradiamento universale della vita che corre e di cui siamo una particella cosciente. Es.:Finale del Salone d’albergo del parolibero Folgore. Il verbo all’infinito è la passione dell’io che si abbandona al divenire del tutto,la continuità eroica, disinteressata dello sforzo e della gioia di agire. Verbo all’infinito – divinità dell’azione.

4. Mediante uno o più aggettivi isolati tra parentesi o messi a fianco delle parole in libertà dietro una riga perpendicolare (in chiave), si possono dare le diverse atmosfere del racconto e i toni che lo governano. Questi aggettivi-atmosfera o aggettivi-tono non possono essere sostituiti da sostantivi. Sono convinzioni intuitive difficilmente dimostrabili. Credo però che isolando p. es. il sostantivo ferocia (o mettendolo in chiave, in una descrizione di strage) si otterrà uno stato d’animo di ferocia fermo e chiuso in un profilo netto. Mentre, se io pongo tra parentesi o in chiave l’aggettivo feroce, ne faccio un aggettivo-atmosfera o aggettivo-tono, che avvilupperà tutta la descrizione della strage senza arrestare la corrente delle parole in libertà.

5. Malgrado le più abili deformazioni, il periodo sintattico conteneva sempre una prospettiva scientifica e fotografica assolutamente contraria ai diritti della emozione. Colle parole in libertà questa prospettiva fotografica viene distrutta e si giunge naturalmente alla multiforme prospettiva emozionale. (Es.: Uomo + montagna + vallata del parolibero Boccioni.)

6. Colle parole in libertà, noi formiamo talvolta delle tavole sinottiche di valori lirici, che ci permettono di seguire leggendo contemporaneamente molte correnti di sensazioni incrociate o parallele. Queste tavole sinottiche non devono essere uno scopo, ma un mezzo per aumentare la forza espressiva del lirismo. Bisogna dunque evitare ogni preoccupazione pittorica, non compiacendosi in giochi di linee, né in curiose sproporzioni  tipografiche. Tutto ciò che nelle parole in libertà non concorre ad esprimere col nuovissimo splendore geometrico-meccanico la sfuggente e misteriosa sensibilità futurista, deve essere risolutamente bandito. Il parolibero Cangiullo in Fumatori II°, fu felicissimo nel dare con questa analogia disegnata:

F U M A R E

le lunghe e monotone fantasticherie el’espandersi della noia-fumo di un lungo viaggio in treno. Le parole in libertà, in questo sforzo continuo di esprimere colla massima forza e la massima profondità, si trasformano naturalmente in auto-illustrazioni, mediante l’ortografia e tipografia libere espressive, le tavole sinottiche di valori lirici e le analogie disegnate. (Es.: Il pallone disegnato tipograficamente nel mio ZANG TUMB TUMB) Appena questa maggiore espressione è raggiunta, le parole in libertà ritornano al loro fluire normale. Le tavole sinottiche di valori sono inoltre la base della critica in parole in libertà. (Es.: Bilancio 1910-1914 del parolibero Carrà.)

7. L’ortografia e la tipografia libere espressive servono inoltre ad esprimere la mimica facciale e la gesticolazione del narratore. Così le parole in libertà giungono ad utilizzare (rendendola completamente) quella parte di esuberanza comunicativa e di genialità epidermica che è una delle caratteristiche delle razze meridionali. Questa energia d’accento, di voce e di mimica che finora si rivelava soltanto in tenori commoventi e in conversatori brillanti, trova la sua espressione naturale nelle sproporzioni dei caratteri tipografici che riproducono le smorfie del viso e la forza scultoria e cesellante dei gesti. Le parole in libertà diventano così il prolungamento lirico e trasfigurato del nostro magnetismo animale.

8. Il nostro amore crescente per la materia, la volontà di penetrarla e di conoscere le sue vibrazioni, la simpatia fisica che ci lega ai motori, ci spingono all’uso dell’onomatopea.Il rumore, essendo il risultato dello strofinamento o dell’urto di solidi, liquidi o gas in velocità, l’onomatopea, che riproduce il rumore, è necessariamente uno degli elementi più dinamici della poesia. Come tale l’onomatopea può sostituire il verbo all’infinito, specialmente se viene opposta ad una o più altre onomatopee. (Es.: l’onomatopea tatatata delle mitragliatrici, opposta all’urrrraaaah dei Turchi nel finale del capitolo “Ponte”, del mio ZANG, TUMB, TUMB).La brevità delle onomatopee permette in questo caso di dare degli agilissimi intrecci di ritmi diversi. Questi perderebbero parte della loro velocità se fossero espressi piùastrattamente, con maggior sviluppo, cioè senza il tramite delle onomatopee.Vi sono diversi tipi di onomatopee:a)Onomatopea diretta imitativa elementare realistica, che serve ad arricchire di realtà brutale il lirismo e gli impedisce dì diventare troppo astratto o troppo artistico. (Es.: pic pac pum, fucileria.) Nel mio Contrabbando di guerra, in ZANG, TUMB, TUMB,, l’onomatopea stridente ssiiiii dà il fischio di un rimorchiatore sulla Mosa ed è seguita dall’onomatopea velata ffiiii ffiiiiiii, eco dell’altra riva. Le due onomatopee mi hanno evitato di descrivere la larghezza del fiume, che viene così definita dal contrasto delle due consonanti s ed f.  b)Onomatopea indiretta complessa e analogica. Es.: nel mio poema Dune l’onomatopea dum-dum-dum-dum esprime il rumore rotativo del sole africano e il peso arancione del cielo, creando un rapporto tra sensazioni di peso, calore, colore, odore e rumore. Altro esempio: l’onomatopea stridionla stridionla stridionlaire che si ripete nel primo canto del mio poema epico La Conquete des Etoiles forma un’analogia fra lo stridore di grandi spade e l’agitarsi rabbioso delle onde, prima di una grande battaglia di acque in tempesta. c) Onomatopea astratta, espressione rumorosa e incosciente dei moti più complessi e misteriosi della nostra sensibilità. (Es.: nel mio poema Dune, l’onomatopea astratta ran ran ran non corrisponde a nessun rumore della natura o del macchinismo, ma esprime uno stato d’animo.) d)Accordo onomatopeico psichico, cioè fusione di 2 o 3 onomatopee astratte.

9. L’amore della precisione e della brevità essenziale mi ha dato naturalmente il gusto dei numeri, che vivono e respirano sulla carta come esseri vivi nella nostra nuova sensibilità numerica. Es.: invece di dire, come qualsiasi scrittore tradizionale: “un vasto e profondo rintocco di campana” (notazione imprecisa e perciò inefficace), oppure, come un contadino intelligente: “questa campana si può dire dal villaggio tale o tal’altro” (notazione più precisa ed efficace), io afferro con precisione intuitiva la potenza del rimbombo e ne determino l’ampiezza, dicendo “campana rintocco ampiezza 20 kmq.” Io do così tutto un orizzonte vibrante e una quantità di esseri lontani che tendono l’orecchio al medesimo suono di campana. Esco dall’impreciso, dal banale, e m’impadronisco della realtà con un atto volitivo che soggioga e deforma originalmente la vibrazione stessa del metallo. I segni matematici + – x = servono a ottenere delle meravigliose sintesi e concorrono, colla loro semplicità astratta d’ingranaggi anonimi,a dare lo splendore geometrico e meccanico. Per esempio, sarebbe stata necessaria almeno un’intera pagina di descrizione, per dare questo vastissimo e complicato orizzonte di battaglia, che ha trovato invece questa equazione lirica definitiva: “orizzonte = trivello acutissimo del sole + 5 ombre triangolari (1 km.di lato) + 3 losanghe di luce rosea + 5 frammenti di colline + 30 colonne di fumo + 23 vampe”.Io impiego l’x, per indicare le soste interrogative del pensiero. Elimino così il punto interrogativo, che localizzava troppo arbitrariamente su un punto solo della coscienza la sua atmosfera di dubitazione.Coll’x matematico, la sospensione dubitativa sispande ad un tratto sull’intera agglomerazione di parole in libertà. Sempre intuitivamente, io introduco tra le parole in libertà dei numeri che non hanno significato né valore diretto, ma che (indirizzandosi fonicamente e otticamente alla sensibilità numerica) esprimono le varie intensità trascendentali della materia e le rispondenze incrollabili della sensibilità. Io creo dei veri teoremi o delle equazioni liriche, introducendo dei numeri intuitivamente scelti e disposti nel centro stesso di una parola, con una certa quantità di + – x =, iodo gli spessori, il rilievo, i volumi delle cose che la parola deve esprimere. La disposizione + – + – + + x serve a dare, per es. i cambiamenti e l’acceleramento divelocità di un automobile. La disposizione serve a dare l’affastellamento di sensazioni eguali. (Es.: “odore fecale della dissenteria + puzzo melato dei sudori della peste + tanfo ammoniacale ecc. “, nel Treno di soldati ammalati del mio ZANG, TUMB, TUMB).Così al “ciel antérieur où fleurit la beauté”di Mallarmé, noi sostituiamo lo splendore geometrico e meccanico e la sensibilità numerica nelle parole in libertà.

 

U. Boccioni. La città che sale

 

UCCIDIAMO IL CHIARO DI LUNA!

aprile 1909

1

- Olà! grandi poeti incendiarî, fratelli miei futuristi!…Olà! Paolo Buzzi,

Palazzeschi, Cavacchioli, Govoni, Altomare, Folgore, Boccioni, Carrà, Russolo,

Balla, Severini, Pratella, D’Alba, Mazza! Usciamo da Paralisi, devastiamo

Podagra e stendiamo il gran Binario militare sui fianchi del Gorisankar, vetta

del mondo!

Uscivamo tutti dalla città, con un passo agile preciso, che sembrava volesse

danzare cercando ovunque ostacoli da superare. Intorno a noi, e nei nostri

cuori, immensa ebrietà del vecchio sole europeo, che barcollava tra nuvole color

di vino…Quel sole ci sbatté sulla faccia la sua gran torcia di porpora

incandescente, poi crepò, vomitandosi tutto all’infinito.

Turbini di polvere aggressiva; acciecante fusione di zolfo, di potassa e di

silicati per le vetrate dell’Ideale!…Fusione d’un nuovo globo solare che

presto vedremo risplendere.

- Vigliacchi! – gridai, voltandomi verso gli abitanti di Paralisi, ammucchiati

sotto di noi, massa enorme di obici irritati, già pronti per i nostri futuri

cannoni.

“Vigliacchi! Vigliacchi!…Perché queste vostre strida di gatti scorticati

vivi?…Temete forse che appicchiamo il fuoco alle vostre catapecchie?…Non

ancora!…Dovremo pur scaldarci nell’inverno prossimo!…Per ora, ci

accontentiamo di far saltare in aria tutte le tradizioni, come ponti

fradici!…La guerra?…Ebbene, sì: essa è la nostra unica speranza, la nostra

ragione di vivere, la nostra sola volontà!…Sì, la guerra! Contro di voi, che

morite troppo lentamente, e contro tutti i morti che ingombrano le nostre

strade!…

“Sì, i nostri nervi esigono la guerra e disprezzano la donna, poiché noi temiamo

che braccia supplici s’intreccino alle nostre ginocchia, la mattina della

partenza!…Che mai pretendono le donne, i sedentarî, gl’invalidi, gli ammalati,

e tutti i consiglieri prudenti? Alla loro vita vacillante, rotta da lugubri

agonie, da sonni tremebondi e da incubi grevi, noi preferiamo la morte violenta

e la glorifichiamo come la sola che sia degna dell’uomo, animale da preda.

“Vogliamo che i nostri figliuoli seguano allegramente il loro capriccio,

avversino brutalmente i vecchi e sbeffeggino tutto ciò che è consacrato dal

tempo!

“Questo v’indigna? Mi fischiate?…Alzate la voce!…Non ho udita l’ingiuria!

Più forte! Che cosa? Ambiziosi?…Certamente! Siamo degli ambiziosi, noi, perché

non vogliamo strofinarci ai vostri fetidi velli, o gregge puzzolente, color di

fango, canalizzato nelle strade antiche della Terra…Ma “ambiziosi” non è la

parola esatta! Noi siamo piuttosto dei giovani artiglieri in baldoria!…E voi

dovete, anche a vostro dispetto, abituarvi al frastuono dei nostri cannoni! Che

cosa dite?…Siamo pazzi?…Evviva! Ecco finalmente la parola che

aspettavo!…Ah! Ah! Bellissima trovata!…Prendete con cautela questa parola

d’oro massiccio, e tornatevene presto in processione, per celarla nella più

gelosa delle vostre cantine! Con quella parola fra le dita e sulle labbra,

potrete vivere ancora venti secoli…Per conto mio, vi annuncio che il mondo è

fradicio di saggezza!…

“E’ perciò che noi oggi insegnamo l’eroismo metodico e quotidiano, il gusto

della disperazione, per la quale il cuore dà tutto il suo rendimento,

l’abitudine all’entusiasmo, l’abbandono alla vertigine…

“Noi insegnamo il tuffo nella morte tenebrosa sotto gli occhi bianchi e fissi

dell’Ideale…E noi stessi daremo l’esempio, abbandonandoci alla furibonda Sarta

delle battaglie, che, dopo averci cucita addosso una bella divisa scarlatta,

sgargiante al sole, ungerà di fiamma i nostri capelli spazzolati dai

proiettili…Così appunto la calura di una sera estiva spalma i campi d’uno

scivolante fulgòre di lucciole.

“Bisogna che gli uomini elettrizzino ogni giorno i loro nervi ad un orgoglio

temerario!…Bisogna che gli uomini giuochino d’un tratto la loro vita, senza

spiare i biscazzieri bari e senza controllare l’equilibrio delle roulettes,

stando chini sui vasti tappeti verdi della guerra, covati dalla fortunosa

lampada del sole. Bisogna, – capite? – bisogna che l’anima lanci il corpo in

fiamme, come un brulotto, contro il nemico, l’eterno nemico che si dovrebbe

inventare se non esistesse!…

“Guardate laggiù, quelle spiche di grano, allineate in battaglia, a

milioni…Quelle spiche, agili soldati dalle baionette aguzze, glorificano la

forza del pane, che si trasforma in sangue, per sprizzar dritto, fino allo

Zenit. Il sangue sappiatelo, non ha valore né splendore, se non liberato, col

ferro o col fuoco, dalla prigione delle arterie! E noi insegneremo a tutti i

soldati armati della terra come il sangue debba essere versato…Ma, prima,

converrà ripulire la grande Caserma dove voi pullulate, insetti che siete! Ci

vorrà poco…Frattanto, cimici, potete ancora tornare, per questa sera,

agl’immondi giacigli tradizionali, su cui noi non vogliamo più dormire!”

Mentre volgevo loro le spalle, io sentii, dal dolore della mia schiena, che

troppo a lungo avevo trascinato, nella rete immensa e nera della mia parola,

quel popolo moribondo, coi suoi ridicoli guizzi di pesce ammucchiato sotto

l’ultima ondata di luce che la sera spingeva alle scogliere della mia fronte.

2

La città di Paralisi, col suo gridìo di pollaio, coi suoi orgogli impotenti di

colonne troncate, con le sue cupole tronfie che partoriscono statuette meschine,

col capriccio dei suoi fumi di sigaretta sopra bastioni puerili offerti ai

buffetti… scomparve alle nostre spalle, danzando al ritmo dei nostri passi

veloci.

Davanti a me, ancora distante alcuni chilometri, si delineò ad un tratto il

Manicomio, alto sulla groppa di una collina elegante, che sembrava trotterellare

come un puledro.

- Fratelli, – diss’io – riposiamoci per l’ultima volta, prima di muovere alla

costruzione del gran Binario futurista!

Ci coricammo, tutti fasciati dall’immensa follia della Via Lattea, all’ombra del

Palazzo dei vivi, e subito tacque il fracasso dei grandi martelli quadrati dello

spazio e del tempo…Ma Paolo Buzzi, non poteva dormire, poiché il suo corpo

spossato sussultava ad ogni istante alle punture delle stelle velenose che ci

assalivano da ogni parte.

- Fratello! – mormorò – scaccia lontano da me codeste api che ronzano sulla rosa

porporina della mia volontà!

Poi si riaddormentò nell’ombra visionaria del Palazzo ricolmo di fantasia, da

cui saliva la melopea cullante ed ampia della eterna gioia.

Enrico Cavacchioli sonnecchiava e sognava ad alta voce: – Io sento ringiovanire

il mio corpo ventenne!…Io ritorno, d’un passo sempre più infantile, verso la

mia culla…Presto, rientrerò nel ventre di mia madre!…Tutto, dunque, mi è

lecito!…Voglio preziosi gingilli da rompere… Città da schiacciare, formicai

umani da sconvolgere!…Voglio addomesticare i Venti e tenerli a

guinzaglio…Voglio una muta di venti, fluidi levrieri, per dar la caccia ai

cirri flosci e barbuti.

La respirazione dei miei fratelli dormenti fingeva il sonno di un mare possente,

su una spiaggia. Ma l’entusiasmo inesauribile dell’aurora traboccava già dalle

montagne, tanto copiosamente la notte aveva dovunque versato profumi e linfe

eroiche. Paolo Buzzi, bruscamente sollevato da quella marea di delirio, si

contorse, come nell’angoscia di un incubo.

- Li udite i singhiozzi della Terra?…La Terra agonizza nell’orrore della

luce!…Troppi soli si chinarono al suo livido capezzale! Bisogna lasciarla

dormire!…Ancora! Sempre!…Datemi delle nuvole, dei mucchi di nuvole, per

coprire i suoi occhi e la sua bocca che piange!

A queste parole il Sole ci porse dall’estremità dell’orizzonte, il suo tremulo e

rosso volante di fuoco.

- Alzati, Paolo! – gridai allora. – Afferra quella ruota!…Io ti proclamo

guidatore del mondo!…Ma, ahimè, noi non potremo bastare al gran lavoro del

Binario futurista! Il nostro cuore è ancora pieno di un ciarpame immondo: code

di pavoni, pomposi galli di banderuole, leziosi fazzoletti profumati!…E non

abbiamo ancora scacciate dal nostro cervello le lugubri formiche della

saggezza…Ci vogliono dei pazzi!…Andiamo a liberarli!

Ci avvicinammo alle mura imbevute di gioia solare, costeggiando una sinistra

vallata, ove trenta gru metalliche sollevano stridendo, dei vagoncini pieni

d’una biancheria fumigante, inutile bucato di quei Puri, lavati già da ogni

sozzura di logica.

Due alienisti comparvero, categorici, sulla soglia del Palazzo. Io non avevo fra

le mani che uno smagliante fanale d’automobile; e fu col suo manico di lucido

ottone che inculcai loro la morte.

Dalle porte spalancate, pazzi e pazze scamiciati, seminudi, eruppero a migliaia,

torrenzialmente, così da ringiovanire e ricolorare il volto rugoso della Terra.

Alcuni vollero subito brandire, come bastoni d’avorio, i campanili lucenti;

altri si misero a giuocare al cerchio con delle cupole…Le donne pettinavano le

loro lontane capigliature di nuvole con le acute punte di una costellazione.

- O pazzi, o fratelli nostri amatissimi, seguitemi!…Noi costruiremo il Binario

sulle cime di tutte le montagne, fino al mare! Quanti siete?…Tremila?…Non

basta! D’altronde la noia e la monotonia troncheranno in breve il vostro bello

slancio…Corriamo a domandar consiglio alle belve dei serragli accampati alle

porte della Capitale. Sono gli esseri più vivi, i più sradicati, i meno

vegetali! Avanti!…A Podagra! A Podagra!…

E partimmo, scarica formidabile di una chiusa immane.

L’esercito della follia si avventò di pianura in pianura, calò per le valli,

ascese rapido alle cime, con lo slancio fatale e facile d’un liquido entro

enormi vasi comunicanti, e infine mitragliò di grida, di fronti e di pugni le

mura di Podagra che risuonò come una campana.

Dopo avere ubbriacati, uccisi o calpestati i guardiani, la gesticolante marea

inondò l’immenso corridoio melmoso del serraglio, le cui gabbie, piene di velli

danzanti ondeggiavano nel vapore delle urine selvatiche e oscillavano più

leggiere che gabbie di canarini fra le braccia dei pazzi.

Il regno dei leoni ringiovanì la Capitale. La ribellione delle criniere e il

voluminoso sforzo delle groppe inarcate a leva scolpivano le facciate. La loro

forza di torrente, scavando il selciato, trasformò le vie in altrettanti tunnel

dalle vôlte scoppiate. Tutta la tisica vegetazione degli abitanti di Podagra fu

infornata nelle case, le quali, piene di rami urlanti, tremavano sotto la

impetuosa grandinata di sgomento che crivellava i tetti.

Con bruschi slanci e con lazzi da clowns, i pazzi inforcavano i bei leoni

indifferenti, che non li sentivano, e quei bizzarri cavalieri esultavano ai

tranquilli colpi di coda che ad ogni istante li gettavano a terra…Ad un

tratto, le belve si arrestarono, i pazzi tacquero, davanti alle mura, che non si

muovevano più…

- I vecchi son morti…I giovani sono fuggiti!… Meglio così!…Presto! Siano

divelti i parafulmini e le statue!…Saccheggiamo gli scrigni colmi

d’oro…Verghe e monete!…Tutti i metalli preziosi saranno fusi, pel gran

Binario militare!…

Ci precipitammo fuori, coi pazzi gesticolanti e le pazze scarmigliate, coi

leoni, le tigri e le pantere cavalcate a nudo da cavalieri che l’ebbrezza

irrigidiva contorceva ed esilarava freneticamente.

Podagra non fu più che un immenso tino, pieno di un rosso vino dai gorghi

spumosi, che colava veemente dalle porte, i cui ponti levatoi erano imbuti

trepidanti e sonori…

Attraversammo le rovine dell’Europa ed entrammo nell’Asia, sparpagliando lontano

le orde terrorizzate di Podagra e di Paralisi, come i seminatori gettano la

semente con un gran gesto circolare.

3

A notte piena, eravamo quasi in cielo, su l’altipiano persiano, sublime altare

del mondo, i cui gradini smisurati portano popolose città. Allineati

all’infinito lungo il Binario ansavamo su crogiuoli di barite, di alluminio e di

manganese, che a quando a quando spaventavano le nuvole con la loro esplosione

abbagliante; e ci sorvegliava, in cerchio, la maestosa ronda dei leoni che,

erette le code, sparse al vento le criniere, foravano il cielo nero e profondo

coi loro ruggiti tondi e bianchi.

Ma, a poco a poco, il lucente e caldo sorriso della luna traboccò dalle nuvole

squarciate. E, quando ella apparve infine, tutta grondante dell’inebriante latte

delle acacie, i pazzi sentirono il loro cuore staccarsi dal petto e salire verso

la superficie della liquida notte.

Ad un tratto, un grido altissimo lacerò l’aria; un rumore si propagò, tutti

accorsero…Era un pazzo giovanissimo, dagli occhi di vergine, rimasto fulminato

sul Binario.

Il suo cadavere fu subito sollevato. Egli teneva fra le mani un fiore bianco e

desioso, il cui pistillo s’agitava come una lingua di donna. Alcuni vollero

toccarlo, e fu male, poiché rapidamente, con la facilità di un’aurora che si

propaga sul mare, una verdura singhiozzante sorse per prodigio dalla terra

increspata di onde inattese.

Dal fluttuare azzurro delle praterie, emergevano vaporose chiome d’innumerevoli

nuotatrici, che schiudevano sospirando i petali delle loro bocche e dei loro

occhi umidi. Allora, nell’inebbriante diluvio dei profumi, vedemmo crescere

distesamente intorno a noi una favolosa foresta, i cui fogliami arcuati

sembravano spossati da una brezza troppo lenta. Vi ondeggiava una tenerezza

amara…Gli usignuoli bevevano l’ombra odorosa con lunghi gorgoglii di piacere,

e a quando a quando scoppiavano a ridere nei cantucci giocando a rimpiattino

come fanciulli vispi e maliziosi. Un sonno soavissimo vinceva lentamente

l’esercito dei pazzi, che si misero a urlare dal terrore.

Irruenti, le belve si precipitarono a soccorrerli. Per tre volte, stretti in

gomitoli balzanti, e con assalti uncinati di rabbia esplosiva, le tigri

caricarono gli invisibili fantasmi di cui ribolliva la profondità di quella

foresta di delizie…

Finalmente, fu aperto un varco: enorme convulsione di fogliami feriti, i cui

lunghi gemiti svegliarono i lontani echi loquaci appiattati nella montagna. Ma,

mentre ci accanivamo, tutti, a liberar le nostre gambe e le nostre braccia dalle

ultime liane affettuose, sentimmo a un tratto la Luna carnale, la Luna dalle

belle coscie calde, abbandonarsi languidamente sulle nostre schiene affrante.

Si udì gridare nella solitudine aerea degli altipiani:

- Uccidiamo il chiaro di Luna!

Alcuni accorsero alle cascate vicine; gigantesche ruote furono inalzate, e le

turbine trasformarono la velocità delle acque in magnetici spasimi che

s’arrampicarono a dei fili, su per alti pali, fino a dei globi luminosi e

ronzanti.

Fu così che trecento lune elettriche cancellarono coi loro raggi di gesso

abbagliante l’antica regina verde degli amori.

E il Binario militare fu costruito. Binario stravagante che seguiva la catena

delle montagne più alte e sul quale si slanciarono tosto le nostre

veementi locomotive impennacchiate di grida acute, via da una cima all’altra,

gettandosi in tutti i precipizi e arrampicandosi dovunque, in cerca di abissi

affamati, di svolti assurdi e d’impossibili zig-zag…Tutt’intorno, da lontano,

l’odio illimitato segnava il nostro orizzonte irto di fuggiaschi. Erano le orde

di Podagra e di Paralisi, che noi rovesciammo nell’Indostan.

4

Accanito inseguimento…Ecco scavalcato il Gange! Finalmente il soffio impetuoso

dei nostri petti fugò davanti a noi le nuvole striscianti, dagli avvolgimenti

ostili, e noi scorgemmo all’orizzonte i sussulti verdastri dell’Oceano Indiano,

a cui il sole metteva una fantastica museruola d’oro..

Sdraiato nei golfi di Oman e del Bengala, esso preparava perfidamente

l’invasione delle terre.

All’estremità del promontorio di Cormorin, orlato di una poltiglia di ossami

biancastri, ecco l’Asino colossale e scarno la cui groppa di cartapecora

grigiastra fu incavata dal peso delizioso della Luna…Ecco l’Asino dotto, dal

membro prolisso rammendato di scritture, che raglia da tempo immemorabile il suo

rancore asmatico contro le brume dell’orizzonte, dove tre grandi vascelli

s’avanzavano immobili, con le loro velature simili a colonne vertebrali

radiografate.

Subito, l’immensa mandra delle belve cavalcate dai pazzi protese sui flutti musi

innumerevoli, sotto il turbinìo delle criniere che chiamavano l’Oceano alla

riscossa. E l’Oceano rispose all’appello, inarcando un dorso enorme e squassando

i promontorî prima di prender lo slancio. Esso provò lungamente la propria

forza, agitando le anche e ripiegando il ventre sonoro fra le sue vaste

fondamenta elastiche.

Poi, con un gran colpo di reni, l’Oceano poté sollevare la propria massa e

sormontò la linea angolosa delle rive…Allora, la formidabile invasione

cominciò.

Noi marciavamo nell’ampio accerchiamento delle onde scalpitanti, grandi globi di

schiuma bianca che rotolavano e crollavano, docciando le schiene dei

leoni…Questi, allineati in semicerchio intorno a noi, prolungavano da ogni

parte le zanne, la bava sibilante e gli urli delle acque. Talvolta, dall’alto

delle colline, guardavano l’Oceano gonfiare progressivamente il suo profilo

mostruoso, come una immensa balena che si spingesse innanzi su un milione di

pinne. E fummo noi che lo guidammo così fino alla catena dell’Imalaia, aprendo,

come un ventaglio, il formicolìo delle orde in fuga che volevamo schiacciare

contro i fianchi del Gorisankar.

- Affrettiamoci, fratelli miei!…Volete dunque che le belve ci sorpassino? Noi

dobbiamo rimanere in prima fila malgrado i nostri lenti passi che pompano i

succhi della terra…Al diavolo queste mani vischiose e questi piedi che

trascinano radici!…Oh! noi non siamo che poveri alberi vagabondi! Vogliamo

delle ali! Facciamoci dunque degli aeroplani.

Saranno azzurri gridarono i pazzi azzurri,per sottrarci meglio agli sguardi del

nemico, e per confonderci con l’azzurro del cielo, che, quando c’è vento,

garrisce sulle vette come un’immensa bandiera.

E i pazzi rapirono mantelli turchini alla gloria dei Budda, nelle antiche

pagode, per costruire le loro macchine volanti.

Noi ritagliammo i nostri aeroplani futuristi nella tela color d’ocra dei

velieri. Alcuni avevano ali equilibranti e portando i loro motori, s’inalzavano

come avoltoi insanguinati che sollevassero in cielo vitelli convulsi.

Ecco: il mio biplano multicellulare a coda direttiva: 100 HP, 8 cilindri, 80

chilogrammi…Ho fra i piedi una minuscola mitragliatrice, che posso scaricare

premendo un bottone d’acciaio…

E si parte, nell’ebbrezza di un’agile evoluzione, con un volo vivace,

crepitante, leggiero e cadenzato come un canto d’invito a bere e a ballare.

Urrà! Siam degni finalmente di comandare il grande esercito dei pazzi e delle

belve scatenate!…

Urrà! Noi dominiamo la nostra retroguardia: l’Oceano col suo avviluppamento di

schiumanti cavallerie! Avanti, pazzi, pazze, leoni, tigri, e pantere! Avanti,

squadroni di flutti!…I nostri aeroplani saranno per voi, a volta a

volta,bandiere di guerra e amanti appassionate! Deliziose amanti che nuotano,

aperte le braccia, sull’ondeggiar dei fogliami, o che indugiano mollemente

sull’altalena della brezza!. Ma guardate lassù, a destra, quelle spole

azzurre…Sono i pazzi, che cullano i loro monoplani sull’amaca del vento del

sud!…Io intanto, sto seduto come un tessitore davanti al telaio e vo tessendo

l’azzurro serico del cielo!

Oh quante fresche vallate, quanti monti burberi, sotto di noi!…Quanti greggi

di pecore rosee, sparsi sui declivi delle verdi colline che si offrono al

tramonto!…Tu le amavi,anima mia!…No! No! Basta! Tu non godrai più, mai più,

di simili insipidezze!…Le canne colle quali un tempo facevamo delle zampogne

formano l’armatura di questo aeroplano!…Nostalgia! Ebbrezza trionfale! Presto

avremo raggiunti gli abitanti di Podagra e di Paralisi, poiché voliamo rapidi ad

onta delle raffiche avverse…Che dice l’anemometro?…Il vento che ci è

contrario ha una velocità di cento chilometri all’ora!…Che importa? Io salgo a

duemila metri, per sorpassare l’altipiano…Ecco! Ecco le orde!…Là, là,

davanti a noi, e già sotto ai nostri piedi!…Guardate, laggiù, a picco, fra gli

ammassi di verdura, la tumultuante follia di quel torrente umano che s’accanisce

a fuggire!

Questo fracasso?…E lo schianto degli alberi! Ah! Ah! Le orde nemiche sono

ormai cacciate contro l’alta muraglia del Gorisankar!…E noi diamo loro

battaglia!…Udite? Udite i nostri motori come applaudono?…Olà, grande Oceano

Indiano, alla riscossa!

L’Oceano ci seguiva solennemente,atterrando le mura delle città venerate e

gettando di sella le torri illustri, vecchi cavalieri dall’armatura sonora,

crollati giù dagli arcioni marmorei dei templi.

Finalmente! Finalmente! Eccoti dunque davanti a noi gran popolo formicolante di

Podagrosi e di Paralitici, lebbra schifosa che divora i bei fianchi della

montagna…Noi voliamo rapidi contro di voi, fiancheggiati dal galoppo dei

leoni, nostri fratelli, e abbiamo alle spalle l’amicizia minacciosa dell’Oceano,

che ci segue da vicino per impedire che s’indietreggi!…E’ soltanto una

precauzione, poiché non vi temiamo!…Ma voi siete innumerevoli!…E potremmo

esaurire le nostre munizioni, invecchiando durante la carneficina!

Io regolerò il tiro!…L’alzo a ottocento metri! Attenti!…Fuoco!…Oh!

l’ebbrezza di giocare alle biglie della Morte!…E voi non potrete carpircele!

Indietreggiate ancora? Questo altipiano sarà presto superato!…Il mio aeroplano

corre sulle sue ruote, scivola sui pattini e s’alza a volo di nuovo!…Io vado

contro il vento!…Bravissimi, i pazzi!

Continuate il massacro! Guardate! Io tolgo l’accensione e calo giù

tranquillamente, a volo librato, con magnifica stabilità, per toccar terra dove

più ferve la mischia!

“Ecco la furibonda copula della battaglia, vulva gigantesca irritata dalla foia

del coraggio, vulva informe che si squarcia per offrirsi meglio al terrifico

spasimo della vittoria imminente! E’ nostra, la vittoria…ne sono sicuro,

poiché i pazzi lanciano già al cielo i loro cuori, come bombe!…L’alzo a cento

metri! Attenti!

Fuoco!…Il nostro sangue?…Sì! Tutto il nostro sangue, a fiotti, per

ricolorare le aurore ammalate della Terra!…Sì, noi sapremo riscaldarti fra le

nostre braccia fumanti, o misero Sole, decrepito e freddoloso, che tremi sulla

cima del Gorisankar!…