Bruno Zevi
Prolusione al congresso In/arch 20 gennaio 2000
Il secolo scorso, segnato dal genio di Einstein, ci ha lasciato in eredità un suo interrogativo così espresso nel 1952:
Fin qui il nostro concetto di spazio è stato associato alla scatola. Ci si accorge però che le caratteristiche formative dello spazio-scatola sono indipendenti dallo spessore delle pareti della scatola. Non sarebbe dunque possibile ridurre a zero questo spessore, senza che si abbia per risultato la perdita dello “spazio”? Tale passaggio, al limite, sembra ovvio… uno spazio senza scatola, autonomo. Questa idea può essere formulata drasticamente: se la materia dovesse scomparire, rimarrebbero ancora lo spazio e il tempo come un continuum quadridimensionale oggettivamente inscindibile. Si è resa quindi necessaria un’altra idea: l’evento localizzato non soltanto nel tempo, ma anche nello spazio.
La profezia di uno spazio determinato dall’evento, svincolato dalla scatola, autonomo, immateriale, capace di offrire simultaneamente sicurezza e trasparenza si proietta nel nuovo millennio in chiave politica, sociale, filosofica, architettonica e umana. Uno spazio non più contenuto in un involucro senza spessore, libero da ogni involucro. È un sogno e un obiettivo.
Cari amici dell’In/arch, autorità, signore e signori,
a distanza di 40 anni dalla fondazione del nostro Istituto, credo di essere in grado di fare una prolusione al congresso, ma non so come cominciare. Ci sono tre o quattro modi di iniziare il discorso, e io ve li sottopongo in modo che scegliate voi secondo il vostro gradimento.
Il primo inizio è in chiave politica, e suona cosi’:
Cari amici,
il governo di centro-sinistra rischia di crollare per mancanza di fantasia e di vitalità della maggioranza che lo sostiene. Per quanto attiene alle politiche del territorio, alla cultura delle città, all’ambiente e all’architettura di qualità, il governo di centro-sinistra si è differenziato dai precedenti solo in due cose: nella demolizione di pochi edifici abusivi, e in un’infinità di chiacchiere, alcune belle ma comunque prive di conseguenze, dell’on. Veltroni e dell’on. Melandri.
Francamente, il disegno di legge recante disposizioni in materia di promozione della cultura architettonica e urbanistica, presentato dall’on. Melandri, va sdegnosamente rifiutato, perché la direzione dell’architettura prevista non è affidata ad una personalità libera, di prestigio, com’è in Francia quella di François Barré, ma può essere incarnata anche da un burocrate selezionato dal mazzo dei Sisinni. Tante grazie, on. Melandri, si tenga la sua legge.
Il secondo inizio è in chiave amministrativa e recita così:
Cari amici dell’In/arch,
il nostro congresso si apre quasi alla vigilia delle elezioni regionali del 26 marzo. Le forze di sinistra si dimostrano del tutto indifferenti, ciniche, irresponsabili sulla necessità di mutare rotta acquisendo una fisionomia credibile. I candidati della sinistra sono largamente privi di fascino e di carisma. Hanno malgovernato o non-governato in questi anni, non esprimono alcuna autocritica e persino in casi come il Lazio, che comprende una capitale sull’orlo della catastrofe, dichiarano di non voler cambiare. Del Giubileo sappiamo una sola cosa sicura: che alla fine dell’anno, in pieno e clamoroso disastro, il Sindaco di Roma sorridente non si dimetterà, anzi ci comunicherà che tutto è andato nel modo migliore.
Il terzo inizio della mia prolusione è in chiave culturale:
Cari amici,
apriamo il congresso in stato di prostrazione della professione e, ancor più, della scuola. La professione si strascina ed è 50 anni indietro rispetto alla cultura avanzata. La scuola è 100 anni indietro.
Del resto, lo stato depresso dell’architettura riflette a perfezione il clima depresso della società. Mentre i Presidenti della Repubblica francese si sono sempre impegnati sui valori ambientali e edilizi, mentre in Inghilterra Tony Blair interviene continuamente a favore di un’architettura di qualità, in Italia nessun leader, nessun uomo di Stato, nessun Presidente della Repubblica, nessun Ministro, nessun Senatore, nessun deputato, nessun Presidente della Regione, nessun Sindaco si occupa e preoccupa di problemi ambientali e/o architettonici, se non in qualche accenno dei comizi domenicali.
È logico che la professione langua e perda terreno. Scrivendo un libro sui capolavori del XX secolo, mi sono accorto, con viva sorpresa, che l’Italia ha prodotto, dall’esposizione di Torino del 1902 alla stazione di Firenze, a Sabaudia, alla casa del fascio a Corno di Terragni, alla villa Malaparte a Capri di Libera, al Memorial alle Fosse Ardeatine al villaggio La Martella presso Matera di Quaroni, al Forte Quezzi a Genova di Daneri e via dicendo, molti più capolavori di quanto ci si potesse aspettare. Ma perché? In un contesto politico in cui le doti creative venivano represse e punite in scala urbanistica e nell’impegno di un’edilizia significativa per il popolo, gli artisti-architetti si rifugiavano nella ricerca spasmodica del perfetto e del sublime, nel messaggio unico dei particolari della scrittura. Un capolavoro di Nervi a Orbetello, un capolavoro di Morandi nel salone sotterraneo di Torino, un capolavoro di Scarpa a Verona, un capolavoro di Albini a Genova, testi tragici sotto il profilo biografico, brama di eccezione lirica, conseguente alla strada sbarrata della prosa democratica.
Ecco i tre modi, politico, amministrativo e culturale di cominciare la prolusione affidatami. Scegliete voi. lo opto per una quarta ipotesi e comincio davvero:
Cari amici dell’In/arch, autorità, signore e signori,
sono passati poco più di quarant’anni da quella giornata del 26 ottobre 1959 quando, al Ridotto del Teatro Eliseo in via Nazionale, gremito di architetti di tutta Italia, fondammo il nostro Istituto.
Conservo molte fotografie di quella riunione e delle precedenti patrocinate dalla sezione italiana dell’Unione Internazionale Architetti.
C’erano tutti: Pier Luigi Nervi e Adriano Olivetti, Giuseppe Samonà e Luigi Piccinato, Ernesto Rogers e Luigi Moretti. Un’atmosfera di rara tensione determinata dall’ostilità istintiva degli Ordini degli Architetti, che volevano conservare i loro monopoli, dall’ostilità della maggioranza dei costruttori, che non vedevano alcuna necessità di incontrarsi con gli architetti, dall’ostilità dei critici d’arte che non capivano perché volessimo coinvolgerli, in breve dall’ostilità di tutti coloro che sguazzavano benissimo nel pantano professionale e culturale. Lanciammo allora l’idea di una collaborazione tra economia ed arte, fra costruttori e architetti, al fine di elevare il livello della professione.
Era chiaro a tutti, nell’ottobre 1959, che, proprio per la presenza di tante forze virtualmente ostili, noi incarnavamo la parte vincente.
Nel 1944, all’indomani della Liberazione, l’Associazione Per l’Architettura Organica (APAO) aveva rappresentato l’impulso e l’urto rivoluzionario. Per merito di cinquanta, cento, duecento architetti organici sparsi da Torino a Palermo, l’Italia fu reinserita nel circuito dell’architettura mondiale, superando l’isolamento fascista. Eravamo gli orfani di Edoardo Persico, di Giuseppe Pagano e di Terragni, ne impersonavamo l’eroica eredità, eravamo decisi a non permettere più che l’Italia fosse la terra della restaurazione, dell’accademia, dell’anticultura. Nei primi due concorsi del dopoguerra, quello per il Memorial alle Fosse Ardeatine e quello per il blocco frontale della stazione Termini, il movimento moderno prevalse contro tutte le scorie della dittatura totalitaria. Eravamo la nuova generazione dei leader che dal 1952 aveva conquistato il potere nell’Istituto Nazionale di Urbanistica.
Adesso, nel 1959, con l’In/arch trovavamo lo strumento idoneo per orientare una stagione di prosperità edilizia. Il fronte milanese, che si era sottratto all’esperienza organica, si sfaldava, e i migliori venivano con noi. Dal 1948 l’avamposto veneziano di Samonà drenava le intelligenze e fungeva da cuneo nel panorama dell’insegnamento universitario. Nel campo dei libri, i nostri prevalevano. Praticamente, dominavamo tutta la pianificazione dall’alto con l’INU e quella dal basso con Danilo Dolci. Grazie a Ugo La Malfa e a Fiorentino Sullo, partecipavamo alla commission nazionale di programmazione economica.
In questo quadro, l’In/arch era necessario, anzi indispensabile per la vita dell’architettura e degli architetti. Facemmo bene a fondarlo e dirigerlo. Avete fatto bene, anzi benissimo a rinnovarlo, svincolandolo da ogni patrocinio e conducendolo fino a questo appuntamento nell’ambito di una politica di centro-sinistra.
Ed ora, veniamo al nocciolo. L’architettura è sostanzialmente cambiata in questi ultimi anni, in particolare dal 1988, dalla mostra del decostruttivismo al MoMA di New York. L’In/arch ha resistito con magnifica energia all’ondata reazionaria del Post-Modern dilagante negli anni Ottanta. Spazzata via la vergogna post-modernista, è spalancato al futuro.
Una nuova pagina si è aperta all’architettura, anche se solo poche decine di architetti nel mondo ne sono pienamente coscienti. La nuova epoca è caratterizzata da un nuovo costume professionale, da nuovi strumenti progettuali e, segretamente, da nuovi ideali.
Cosa e accaduto? Possiamo riassumerlo in cinque punti:
l. si è concluso un ciclo di circa 5.000 anni, dall’età delle caverne al decostruttivismo, durante i quali il linguaggio degli architetti ha costantemente oscillato tra il mondo autoritario delle regole e quello trasgressivo della libertà creativa. All’informale paleolitico ha fatto seguito il geometrismo neolitico; i rigidi “ordini” greci sono stati contestati dagli arbitri ellenistici; il monumentalismo classico romano è stato smentito dalla civiltà adrianea e dal tardo-antico; nei percorsi senza fine delle catacombe si è raggiunto il “grado zero” della scrittura architettonica, privo di ogni stasi spaziale; dopo il bizantinismo, nuovo “grado zero” nell’informale dell’Alto Medioevo; poi, la splendida stagione anticlassica, romanica e gotica, che si prolunga fino a Brunelleschi compreso. I velleitarismi classicheggianti della scuola albertiana vengono presto riassorbiti dai morsi spietati del manierismo, da Bramante a Michelangiolo, da Vasari a Palladio; e da allora, incessanti contrasti tra un potere accademico che vorrebbe livellare, istituzionalizzare, omologare, e l’impeto rivoltoso degli autentici artisti. Dal 1851 il movimento moderno segna tappe di progressive aree di libertà, contese dai conservatori che vorrebbero fermare lo sviluppo e tornare indietro. Quando esplode con Frank Lloyd Wright l’epopea organica, la viltà compie l’ultimo tentativo di fare retrocedere la storia e, negli anni Ottanta, invade il campo con il purulento post-modernismo.
Ma, già nel 1988, inaspettatamente, quasi per miracolo, il pendolo reazione-libertà si sottrae alla sua legge genetica scegliendo la libertà.
2. cinquemila anni di storia autoritaria sono così liquidati. Non restano che gli atti creativi, le eccezioni alle regole. Gli architetti restano senza precetti, ordini, proporzioni, ritmi, equilibri, bilanciamenti, simmetrie, cadenze ripetitive, modelli prescrittivi, moduli da imitare, dogmi e tabù da rispettare. L’intero apparato delle convenzioni e delle abitudini risulta estirpato. Dalla sera alla mattina, vince solo la deroga, l’abnorme. I tavoli da disegno vanno al macero, perché quel disegno non serve più; giganteschi falò di righe a T, squadre, tecnigrafi, compassi liberano gli studi professionali. Si lavora con il computer che ignora la linea dritta, il parallelismo, l’angolo retto, l’uniformità e lo standard. Sconfitti i velleitarismi uguagliatori, trionfa la diversità e la ricerca di identità diventa costume di vita.
3. Durante i cinquemila anni, ogni spirito creativo è stato combattuto dall’accademia: Brunelleschi, Michelangiolo, Borromini fino al suicidio, Persico e Terragni fino alla disperazione. Ma, dagli anni ’9O, il fenomeno si è rovesciato. Un Frank O. Gehry o un Daniel Libeskind possono inventare gli impianti e le strutture più improbabili e folli, le giurie dei concorsi internazionali li scelgono e li premiano, la committenza li approva e conferma, il pubblico sia degli esperti che dei profani plaude. Conclusi i cinque millenni si è davvero voltata pagina.
4. Nasce una nuova architettura sul terreno disastrato dalle scorie di cinquemila anni di compromessi. Le scuole di architettura chiudono o dovrebbero chiudere, perché non c’è più nulla da insegnare. I laureati, infarciti di nozioni sgangherate e arbitrarie, devono sforzarsi di dimenticare tutto quanto hanno imparato, e di negare metodicamente tutto ciò in cui credono. Gli studenti di architettura barcollano istupiditi, storditi dalle elucubrazioni verbali di docenti che non hanno più nulla da dire.
5. Siamo all’alba di una nuova civiltà, la cui luce non è destinata ad oscurarsi. Non si alimenta di orientamenti linguistici, ma di esperienze sociali. La nuova architettura incarna la democrazia, giustizia e libertà, il liberalsocialismo con le sue contraddizioni, la sua cacofonia, la sua affabilità al caos. Il suo avvento ha coinciso con fatti epocali inattesi e quasi miracolosi: la fine del comunismo sovietico senza guerre e crisi catastrofiche; la caduta del “muro” e l’unificazione delle due Germanie; la sinistra finalmente al potere anche in Italia, lo sviluppo inaudito delle scienze, delle tecniche e delle arti; il crollo delle concezioni collettivistiche e delle ideologie sovrastrutturali. Al confronto con eventi di tale portata, l’architettura non poteva sottrarsi al compito di essere un’architettura di eventi. Il tempo di qualsiasi “rappresentazione” è scaduto. Si recita a soggetto, in diretta.
Cade la stessa nozione di “progetto” quale si è maturata nella tradizione, e suona quasi ridicola quella “cultura del progetto” sulla quale si sono versati fiumi di parole fino alla penultima decade del XX secolo. È come una macroscopica spazzatura di pseudoconcetti e teorie astratte, attuata nel giro di pochi giorni. Non c’è più un “progetto” da realizzare; adesso l’architettura viene progettata realizzandola, nel corso del suo formarsi. Di tutte le costruzioni pensate, una volta aboliti criteri, principi e metodi, cosa rimane? Immagini sognanti, vaghe e mobili, simili alle “città invisibili” di Calvino.
- Ecco i cinque principali connotati dell’architettura del terzo millennio. Rispetto al passato, la rottura è categorica ed integrale. Ma del passato restano, non più vincolanti:
i cinque principi di Le Corbusier: la pianta libera, la struttura in aggetto, i pilotis, la finestra in lunghezza, il tetto-giardino. Ma si possono buttar via, come ha fatto lo stesso Le Corbusier nella Chapelle de Ronchamp;
il principio di Theo van Doesburg e Mies van der Rohe della decomposizione del volume in lastre da riassemblare ma senza riformare la scatola;
la poetica cézanniana di J.J.P. Oud, un purismo nativo, sottratto alle torture linguistiche di “De Stijl”;
l’impeto materico di Mendelsohn , Häring, Scharoun e Steiner nel contorcere, spremere il masso, quasi fosse investito da una tempesta di vento all’interno e all’esterno, e la sua “pelle” risultasse da questa duplice pressione;
la concezione degli spazi catapultati da Wright, da dentro al fuori, e raccolti da un contesto ambientale assonante;
la casa nel paesaggio, quello delle periferie urbane e quello incondito, selvaggio;
l’immersione nei segni e segnali della metropoli derelitta e vitale e dell’autostrada slittante nel territorio;
il brutto, il rifiuto, il “cheapscape” di Frank Gehry, il panorama degli sfasciacarrozze, l’anarchitettura di Gordon Matta-Clark, il caso e il silenzio di John Cage trasferiti in sede edilizia.
In breve, restano le poetiche e gli strumenti mediante i quali si è decostruito e distrutto il mondo regolamentato di cinque millenni, aprendo la strada all’esplosione dell’individuo e dei suoi rapporti con gli altri.
Sono disponibili:
- l’architettura “di sezione” di Alvar Aalto, con lo spaccato dell’aula magna esibito;
- la scrittura di Jean Renaudie, che censura ogni angolo retto per accentuare l’interconnessione dinamica tra i vari ambienti;
- i segni slabbrati e contorti, in perpetuo stato di ebollizione, di Reima Pietilä, che in Finlandia parla case popolari e residenze presidenziali con lo stesso linguaggio;
- gli aggetti, i gusci, le membrane di Bucky Fuller, Pierluigi Nervi, Riccardo Morandi, Felix Candela e Sergio Musmeci;
- gli intrecci tra strutture e luci di Guarino Guarini;
- l’interpenetrazione di figure geometriche in Francesco Borromini;
- i progetti “espressionisti” di Michelangiolo, specie le mura fiorentine del 1529;
- l’anticlassicismo palladiano di Palazzo Valmarana, della Loggia del Capitanio, de “La Malcontenta” e del Redentore;
- la sproporzione brunelleschiana nella cupola del duomo di Firenze, nei vuoti degli Innocenti, nelle colonne centrali e nei tronchi di trabeazione a Santo Spirito;
- il travolgente raggiro di strade della Siena medievale, le piazze e quella del Campo;
- le affaticate volte a crociera di Sant’Ambrogio di Milano, che bruciano impianti sostanzialmente bidimensionali;
- il cosiddetto Tempio di Minerva Medica che offre un dialogo tra il dentro e il fuori premendo sui suoi nicchioni;
- l’incredibile anticlassicismo dell’Eretteo nell’acropoli ateniese, con le sue sfasature altimetriche, la diversità delle sue facciate e dei suoi ordini, lo scarto dei suoi spazi;
- infine, i vocaboli primordiali, il “menhir”, “il dolmen”, la caverna, il recinto, il villaggio.
Tutto questo non è più “dato” che pesa e condiziona la fantasia architettonica. È un mondo da riscoprire in funzione della creatività moderna, quando e dove serve a stimolarla.
Spente ed esaurite le ideologie, mancano i “manifesti” programmatici, sia individuali che collettivi. Persino un intellettuale come Peter Eisenmann rinuncia. Bernard Tchumi sembra essere sempre sul punto di emettere un manifesto, ma si ferma a tempo. Così Gehry e Libeskind, Hecker, Domenic e Behnish. Appelli come quelli della Secessione Viennese o del gruppo De Stijl sarebbero oggi inconcepibili. Perché oggi non si tratta di unificare le forze, ma al contrario di sconnetterle in omaggio alla diversità. Neppure un’associazione orientata come fu l’APAO, nell’immediato dopoguerra, sarebbe oggi calzante, quando l’obiettivo consiste nel disfare il vecchio più che nel produrre il nuovo.
Per concludere, l’architettura che ci sta davanti riflette l’universo di Albert Einstein, Sigmund Freud, Carlo Rosselli, Arnold Schonberg, Frank Lloyd Wright. Dominando l’ideologia della cultura di massa, della standardizzazione, della prefabbricazione, “la sovranità dell’individuo” promulgata da Wright sembrava un concetto arretrato, ottocentesco, idillico ed evasivo. Con l’ideologia della classe operaia egemone, della dittatura del proletariato, della collettivizzazione dei costumi e delle coscienze, il messaggio liberalsocialista di Carlo Rosselli sembrava anacronistico e ritardatario. Non è stato così. Hanno vinto Wright e Rosselli, hanno perso i loro avversari. Pochi protagonisti hanno salvato il mondo e noi dobbiamo celebrarli.
Ho finito. Leonardo insisteva sulla necessità di tener conto delle nebbie, delle foschie, delle sbavature, delle albe, delle piogge, del clima ingrato, del caldo e delle nuvole, degli odori, tanfi e profumi, della polvere, delle ombre e delle trasparenze, degli spessori soffici e quasi sudati, delle evanescenze fuggevoli. Amici dell’In/arch, adesso l’architettura è attrezzata per captare tali valori.
http://www.fondazionebrunozevi.it/19892000/frame/892000.htm