IL SUICIDIO DI BORROMINI

Roberto Tatarelli  (Psichiatria ed arte)ARETÆUS new

Francesco Castelli, appena arrivato a Roma, nel 1619, cambiò il suo nome in Borromini e iniziò a lavorare con i più grandi architetti del suo tempo, Maderno e Bernini. Il 3 agosto del 1667, morì qualche giorno dopo essersi gettato su una spada. Era nato vicino Lugano il 25 settembre del 1599. Si trattò veramente di suicidio? Roberto Tatarelli, ordinario di Psichiatria dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, discute il problema.

La morte violenta del Borromini presenta alcuni elementi di discussione per quanto riguarda la sua qualificazione suicidaria. Una ragionevole certezza o, meglio, probanti indizi che si sia trattato di suicidio potrebbe venire da una conoscenza dettagliata e approfondita non solo e non tanto dei fatti biografici quanto piuttosto -cosa più difficile- dello sviluppo della vita affettiva e della strutturazione della personalità del personaggio. Poiché, nel caso del nostro sono sicuramente da escludere franche emergenze psicopatologiche, con valore di malattia, anche se aspetti ed elementi al limite della norma non sono affatto rari in persone così grandiosamente creative: sui deboli confini tra genio e follia molto è stato scritto. Anche gli ultimi momenti (le ultime tappe dell’itinerario personologico) precedenti il gesto di violenza mortale sono importanti, anche se non decisivi, per poterlo indicare come veramente autosoppressivo. È comunque certo che nella strutturazione della personalità, nella tipologia e nell’assetto intrapsichico e relazionale è da situare la nascita dell’idea del suicidio; ma ci sfugge sempre molto sulle radici e sulla comprensione del fenomeno, soprattutto nella sua strutturazione ideo-affettiva. Questa premessa circoscrive e limita l’expertise sulla morte del Borromini; inoltre ogni valutazione post-mortem e a così grande distanza sia dall’evento sia dall’ambiente psicologico e culturale non può che essere affetta nella sua attendibilità da sostanziose quote di incertezza probabilistica. Dall’esame di due documenti (la relazione della visita medica all’architetto morente e la constatazione del cadavere) e da altri sommari dati biografici è possibile proporre le seguenti opzioni a favore e contro la suicidalità della morte violenta come ci è stata tramandata dalla storia. Inizio con l’elencare i punti a favore del suicidio:
1) Francesco Borromini, di età per quel tempo sicuramente avanzata, ma ancora in grande attività professionale e con alta creatività, risultava malato da una decina di giorni. L”‘indisposizione” non deve essere stata grave tanto da permettergli di andare “a Santo Giovanni a pigliare il giubileo”, ma egli ne era preoccupato, perché pensa di fare testamento. Non c’è quindi dubbio che l’idea della morte fosse chiaramente presente nella sua coscienza.
2) Poco tempo prima egli aveva distrutto tutti i suoi disegni e progetti. È un’azione che può essere interpretata sia sulla base di personali convinzioni esistenziali e culturali (il Borromini era tra l’altro da considerare un proto-massone) sia sulla base di peculiari aspetti o assetti relazionali o di personalità, sia infine come prodotta da elementi depressivi del momento. In quest’ultima evenienza il fatto potrebbe essere visto in senso autodistruttivo (è qualcosa di molto importante, di vitale, una parte di me che io distruggo), un antefatto suicidario.
3) La notte a cui sarebbe seguito l’atto autoaggressivo il Borromini era praticamente insonne (c’è stato forse solo un assopimento durato due o tre ore), psichicamente energico, determinato e probabilmente ansioso. Non c’è dubbio che l’energia psichica, la determinazione, una quota di ansietà (accanto a più o meno evidenti fenomeni di eccitazione) sono elementi praticamente indispensabili per l’agire suicidario.
4) Dopo il rifiuto da parte del suo assistente Massari di accendergli il lume, gli entra “addosso l’impatientia” e comincia a pensare a come potersi fare del male. L’impatientia, che si può intendere come una condizione di insofferenza intollerante, di non sopportazione, potrebbe essere l’espressione acuta, culminante e pervasiva di uno stato emotivo in cui è la vita che è insopportabile perché dà troppo dolore. Tutti gli elementi di insofferenza per la vita prima controllati come il travaglio continuato, i contrasti, la stanchezza, la malattia, forse la paura della vecchiaia, del deterioramento e, paradossalmente, della morte, sarebbero venuti a incontrarsi e sommarsi per lo stimolo di quella fastidiosa e irritante frustrazione (il rifiuto del Massari) solo in apparenza banale perché in realtà in grado di suscitare il sentimento di impotenza di chi la riceve.
5) La modalità violenta e letale dell’atto non è inconsueta per quell’epoca: il ferirsi con la spada era proprio una delle più frequenti forme del darsi la morte. L’inconsueta introduzione dell’arma nel corpo non è elemento di per sé sufficiente a inficiare l’ipotesi suicidaria: l’epidemiologia dei suicidi è ricca di eccezionalità attuative autosoppressive. Si potrebbe quindi, sulla scorta dei punti indicati, ipotizzare un suicidio “impulsivo”, da stress acuto, da acting-out, con la realizzazione di una sindrome suicidaria estroversiva.
Passo ora ad elencare i punti che fanno sospettare sulla realtà dell’evento suicidario.
1) Francesco Borromini era persona religiosa e molto devota: “prende il giubileo” qualche giorno prima di morire, ha in capo al letto le “candele benedette”. C’è nella sua cultura e nelle sue convinzioni l’idea dell’assoluta indisponibilità della vita, che solo al Signore appartiene.
2) Non risultano nella biografia del Borromini precedenti tentativi di suicidio né scompensi psicopatologici (ad esempio depressivi); né si sarebbero avuti suicidi tra i suoi familiari.
3) Per indicare con probabilità un suicidio “d’impulso”, sulla base degli elementi a favore dell’autosoppressione è importante non solo reperire nella biografia del soggetto fatti violenti e comportamenti aggressivi ma anche evidenziare nella sua personalità certi tratti “psicopatici”, come impulsività, imprudenza, iperreattività, instabilità dell’umore e dell’affettività, o istrionici, come dipendenza, tendenza alla manipolazione, teatralità, eroicità, vendicatività, o ricerca del paradosso. Nella storia del Borromini non solo non sono rinvenibili comportamenti violenti, ma egli è anche, caratterialmente, descritto come metodicamente laborioso, riflessivo, introverso con una “costruzione” artigianale e scrupolosa della tecnica e della creatività, che affonda le radici nella solida concretezza delle sue umili origini.
4) Nell’ipotesi di un suicidio piuttosto di tipo introversivo, cioè più meditato, interiore, “narcisistico”, depressivo, denotato, se così si può dire, da stringente “coerenza” intrapsichica, l’iter attuativo avrebbe dovuto presentarsi diversamente. Basti far rilevare il fatto che l’azione autosoppressiva interrompe la stesura del testamento: ora quella supposta “logica” suicidaria prevede in genere che ci si suicidi dopo l’accurata scrittura delle disposizioni testamentarie.
5) Le perplessità sulla inconsueta modalità “tecnica” dell’azione letale sono da sottoscrivere e potrebbero suggerire la possibilità che la medesima azione possa essere stata perlomeno “aiutata”. È anche singolare che il chirurgo Molinari invece di parlare delle condizioni cliniche, riporti solo il racconto del morente come se lo scopo principale della sua relazione fosse quello di testimoniare e accertare il suicidio.
6) L’indisponibilità di un testamento scritto non può che far sorgere dubbi o sospetti data anche la rilevanza dei beni posseduti da Borromini.
Tutte le considerazioni ora proposte in ordine all’indagine suicidologica, pur nei limiti (ripeto sempre cospicui e ancora maggiori per la lontananza dal sentire attuale) che ogni “autopsia” psicologica presenta, se non portano a mio avviso a un giudizio probante, sono comunque in grado di sostenere t ipotesi del dubbio sull’attendibilità suicidaria dell’evento che condusse a morte il Borromini. Quale commento a una relazione scientifica così altamente esaustiva? Il dubbio è parte della Storia. Ci conforta chiudere quest’ultimo capitolo pensando che tra le sue letture ci sia stata anche quella famosa dell’”Inno al Fuoco” di Proclo. Borromini ha sempre disegnato corone fiammate e fiaccole nelle chiese, sopra le cupole e sulle cuspidi. Prima di morire aveva chiesto che “… una volta gli siano accese in ragione della seppellitura mille fiaccole”